… qual piuma al vento? Non oggi, ma lo fu, e parecchio, nel passato dai prototipografi ambulanti (i Soncino ne sono un classico esempio) a una ipotetica TipograFIAT. Giorgio Coraglia ci guida in questo excursus, certamente poco noto del mondo della stampa.
di Giorgio Coraglia
La stanzialità non risulta certamente essere stata la caratteristica precipua dei prototipografi. Anzi.
Già il nostro Gutenberg, nato a Magonza agli inizi del 1400, lo vediamo a Strasburgo nel 1436 dove pare abbia concepito l’arte della stampa, la nuova “scrittura artificiale”. Dopo aver impiantato la prima officina tipografica inizia una lunga disputa giudiziaria con i suoi due soci – Dritzehen e Heilmann – che lo costringono a cedere la stamperia e, impoverito, torna a Magonza dove, grazie all’aiuto di Fust e Schoeffer, impianterà quella prestigiosa tipografia in cui nacque, nel 1455, il primo capolavoro dell’arte della stampa: la “Bibbia delle 42 righe”.
Nel novembre 1455 altra lite legale con i nuovi soci, che Gutenberg ancora perde insieme alla sua nuova officina. Arriva a soccorrerlo il sindaco di Magonza che gli permette di aprire nuovamente una stamperia che produrrà preziosi incunaboli. Nel 1462, stavolta per “cause” di forza maggiore – il sacco di Magonza – il nostro prototipografo è costretto a riparare in Italia e ritornerà a Magonza soltanto nel 1465 dove terminerà la sua carriera di stampatore e poi la sua vita nel 1468.
La diaspora
Il ”sacco di Magonza” fu anche l’episodio che diede il via alla diaspora di tanti discepoli di Gutenberg in Europa. Così Sweynheim e Pannartz arrivarono a Subiaco dove il 29 ottobre del 1465 stamparono il “De divinis institutionibus” del Lattanzio, il primo libro stampato in Italia. E nel 1472 già li troviamo a Roma. Chissà quale viaggio dovettero affrontare questi tipografi per portare l’arte nera nella nostra penisola poiché bisogna pensare che dovevano trasportare con sé tutto il materiale per impiantare l’officina (in particolare il torchio e gli strumenti per fondere i caratteri). In Italia, quanto meno, potevano contare sulle cartiere.
Storie di straordinaria tipografia come quella del tipografo fiammingo Antonio Di Mattia che nel 1471 arriva a Genova insieme con Lambert Laurenszoon. L’anno seguente quest’ultimo lascia i suoi diritti a Baldassarre Cordero, un facoltoso monregalese, che stringe un contratto con Antonio Di Mattia di Anversa acquistando anche “arnensia, suppelletila et instrumenta per artem impressore literarum”. Impaurito anche dall’epidemia di peste che aveva colpito Genova, il Mattia si lascia convincere a trasportare a Mondovì tutta la sua stamperia da dove, nell’ottobre 1472, esce “De institutione confessorum”, un’opera di S. Antonino, il primo libro di data certa stampato in Piemonte. Dopo pochi mesi si ripete una storia già nota: Cordero fa imprigionare il Mattia accusandolo di averlo indebitato. Dopo la prigionìa Mattia Di Anversa ritorna a Genova lasciando armi e bagagli nella tipografia monregalese di Pian della Valle. A Genova, nei pressi dell’attuale sede del Museo della Stampa – ARMUS – un vico della stampa ricorda questi eventi.
Ancora nel 1537 si racconta che a Città di Castello si invitarono tipografi ambulanti per impiantare una stamperia per imprimere gli “Statuti”. Gli stampatori arrivarono con le attrezzature caricate su una carretta su due ruote trainata da un cavallo. Quando ripartirono, la città tifernate rimase senza tipografia per un lungo periodo. Ma, contrariamente ad altre città, la nuova stamperia di fine Seicento fondata dalle famiglie Grifani e Donati è tuttora attiva senza soluzione di continuità, ed è anche questa, oggi, non solo stamperia, ma anche Museo della Stampa, condotta dal discendente Gianni Ottaviani.
Non vanno poi dimenticati i tipografi ebrei, i Soncino dal nome della località d’adozione, con il capostipite Yehoshua Shelomoh ben Israel Natan, prestatore a pegno originario di Spira, sceso in Italia e stabilitosi nel 1454 appunto nel borgo di Soncino nel cremonese in cui impiantò la prima stamperia (anche qui oggi Museo della Stampa detto, appunto Casa degli Stampatori), prima di trasferirsi a Fano e oltre lungo la penisola.
Truppe tipografiche
Nel 1796, troviamo la Imprimerie ambulante de l’Armée d’Italie voluta da Napoleone durante la Campagna d’Italia per stampare “Il Corriere dell’Armata d’Italia”. Una tipografia mobile, trainata da cavalli, che seguiva le truppe francesi.
Rimanendo in tema di guerre e di tipografie ambulanti, a corredo di questo articolo ci sono due fotografie che riprendono il Carro Redazione 1 e 2 della Tipografia mobile campale dell’Esercito, una colonna ormai motorizzata.
Sempre a proposito di tipografie belliche, vale la pena ricordare un episodio della Prima Guerra Mondiale: gli Alpini nelle trincee sull’Adamello avevano una loro tipografia minimale con una miniplatina (formato cartolina) con cui il tenente faceva stampare volantini di aggiornamento sulle notizie che per la verità giungevano un po’ da lontano, essendo questa una retroguardia. La tipografia smise di operare quando finì la carta (forse utilizzata anche per usi più concreti). La platina è oggi in bella mostra nella tipografia di Davide Ortombina, discendente dell’Alpino tipografo, nel veronese.
Ma troviamo una tipografia mobile anche su strada ferrata. Una tipografia che seguiva la costruzione della linea ferroviaria Union Pacific e stampava “Press on Wheel”. Tutto affidato a una sola persona, Legh Richmond Freeman, che riuniva le mansioni di redattore e di stampatore, servendosi di un torchio a mano e di nove chili di caratteri. L’avventura durò circa due anni fino a quando nel 1868 una banda di fuorilegge mise a fuoco la tipografia allora nello Wyoming. Come nei migliori film western.
Tipi da mare
Molte storie che sanno di tipografia da raccontare, come quella contenuta ne “La lunga notte di Shackleton” nella godibilissima descrizione di Mirella Tenderini (CDA&Vivalda Editori, 2004) che narra le imprese di Ernest Henry Shackletonagli inizi del ventesimo secolo alla ricerca del polo magnetico australe.
Il 1 gennaio 1908 la nave “Nimrod” parte dal porto neozelandese di Lyttelton caricata all’inverosimile. Deve trasportare tutto quanto possa essere sufficiente per permettere a Ernest Shackleton e ai suoi quindici uomini di sopravvivere alla “lunga notte” artica. Stavolta Shackleton si è concesso il “lusso” di sbarcare sul ghiacciaio di Capo Royds anche materiale per impiantare una piccolissima officina tipografica: una cassa di caratteri, un torchio tipografico di piccolo formato e un altro per la calcografia, inchiostri e carta. Vuole realizzare il primo libro composto, stampato e rilegato in Antartide: un impegno che servirà anche a combattere la “noia polare”. Scritto dai membri della spedizione, composto e stampato nella stretta baracca da due marinai improvvisati tipografi e arricchito da undici acqueforti a piena pagina (di cui una a colori per il frontespizio) realizzate da un topografo-cartografo, vede la luce “Aurora Australis”. Forse un centinaio di esemplari, di cui circa due dozzine rilegate – da un meccanico! – con assicelle ricavate dagli imballaggi, così che alcune mantennero nell’interno l’indicazione del contenuto e quelle copie da quella scritta presero il nome: “Butter”, burro; “Bottled fruit”, frutta sciroppata, ecc. “Aurora Australis” oggi sarà certamente introvabile, ma “La lunga notte di Shackleton” è tutto da leggere.
Più in qua nel tempo – dalla metà del Ventesimo secolo – sono da ricordare le straordinarie tipografie galleggianti dei lussuosi transatlantici italiani che solcarono gli oceani sino agli inizi degli Anni Settanta del secolo scorso. Queste piccole città galleggianti, che permettevano di raggiungere rapidamente e comodamente gli altri continenti prima di cedere il passo ai moderni e velocissimi aerei, disponevano di piccole ma attrezzatissime tipografie che stampavano il giornaletto d’informazioni, i menù dei giorno, gli elenchi dei passeggeri durante le lunghe traversate transoceaniche. “Linotype e Linotipisti” ha dedicato un nostalgico ricordo
(www.linotipia.it/oceano.htm) ai tipografi che “componevano sull’onda (del pensiero e del cuore)“, scritto con grande passione da Gino Emanuele Barbarossa, linotipista sulla “Giulio Cesare” (dal 16 luglio 1966), poi sulla “Leonardo da Vinci” sino al 1970 (c’è un’originale fotografia del suo ultimo viaggio, con partenza da New York, in cui si vedono le Torri gemelle ancora in costruzione) con un intermezzo sulla “Cristoforo Colombo” nel 1968. Racconti e fotografie di una storia ancora tutta da scrivere, come quella della tipografia a 70 metri sotto il mare davanti all’Isola di Nantucket (Massachussetts) dell’ammiraglia ”Andrea Doria”, naufragata nel 1956.
Non poteva mancare una tipografia fra le nuvole.
Da “Graphicus”, maggio 1961: “L’aeroplano sovietico “Massimo Gorki”, caduto in pieno volo in Russia nell’aprile 1935, ebbe 50 uomini periti nella catastrofe. Su di esso era stata collocata una piccola tipografia per poter svolgere la propaganda. Tra le attrezzature vi era una piccola rotativa, di formato 30×42 in grado di fornire una produzione di 10 mila copie orarie”.
Largo ai giovani
Tutto questo ieri, e oggi? Dobbiamo ancora una volta prendere lezioni dai giovani e in particolar modo dalle donne, com’è sempre stato anche se l’abbiamo spesso sottaciuto. Kyle Durrie, una ragazza bionda di Portland, nell’Oregon, nel 2010 ha presentato a Kickstarter.com un progetto per una tipografia viaggiante che è piaciuto ha raccolto fondi sufficienti per adattare un vecchio furgone del 1982 ad accogliere al suo interno una piccola stamperia: una piccola platina a mano, tirabozze, caratteri e inchiostri.
Ed ecco realizzato il “Truck Type” che Kyle con il suo fidanzato hanno guidato nel 2011 in un viaggio “coast to coast” lungo 11 mila miglia attraverso gli Stati Uniti, toccando anche il Canada. Un’avventura durata nove mesi con una miriade di tappe che ha attirato una moltitudine di curiosi che rimanevano affascinati dalle attività di quella piccola officina gutenberghiana mobile.
Davvero un grande successo tanto che la bravissima Kyle vuole ripetere (a grande richiesta) la coraggiosa esperienza anche quest’anno, sempre che – dice – il motore del vecchio Chevy Van ce la faccia.
Chissà se qualche nostro giovane prendesse spunto per realizzare un domani anche nell’italica patria un progetto simile? Potrebbe trovare sponsor tra aziende fornitrici di carta e inhiostri, e tra i musei della stampa tricolori che mettano a disposizione piccoli e semplici macchinari insieme con i materiali necessari per realizzare un piccolo laboratorio tipografico da collocare su un furgone fornito da qualche Casa automobilistica che diventerebbe anche un “veicolo” promozionale per la stessa: perché non immaginare, per esempio, una TipograFIAT? Impegnandolo in un itinerario meno ardito del “coast to coast” americano lo si potrebbe far seguire un percorso “da scuola a scuola”, toccando anche i tanti musei della stampa da Mondovì fino al Museo della Stampa di Trapani, così da iniziare i nostri ragazzi alla conoscenza diretta e alla riscoperta della manualità dell’antica arte della stampa.
veramente gustoso, intrigante e dannatamente ben documentato
Great post.
Molto interessante, curioso e istruttivo, complimenti!