In un mercato globale i modi tradizionali per esportare non hanno più senso. Oggi le strategie per una efficace e sicura presenza all’estero devono essere rivedute. Dall’export manager al project manager con competenze complesse e avanzate.

Su questo tema di attualità si è parlato in un seminario all’Università di Bologna – nello stesso giorno in cui la città felsinea ospitava il Flexo Day – organizzato da Roncucci&Partners (REP), società di business development che dal 2001 supporta le imprese nei percorsi di internazionalizzazione.
È stata anche occasione per presentare lo studio “Dall’export manager al Project Manager” affidato a otto specialisti che analizza le trasformazioni del mercato globale e dell’approccio da parte delle PMI.
Nelle conclusioni al volume che raccoglie questi studi, Francesco Ciabuschi, professore ordinario di International Business presso il dipartimenti di Economia Aziendale all’Università di Uppsala in Svezia, sottolinea la necessità per le PMI italiane di una ampia e frequente comunicazione interna, una riduzione delle gerarchia a favore di rapporti più informali e diretti, aumento di responsabilità per uno sviluppo strategico estero a lungo termine, in cui la figura dell’export manager deve essere sviluppata in parallelo all’aspetto organizzativo più generale.

Superare l’empirismo

Va detto subito che da uno studio comparativo tra l’Italia e i Paesi emergenti – India, Cina, Brasile, Messico – l’Italia fa un po’ la figura della provinciale.
La PMI, e a volte non solo quella, è ancora radicata su concetti ormai superati nell’approccio dei mercati stranieri. Tra le mancanze dei nostri manager, emergono la carenza di conoscenze linguistiche, la scarsità di interesse per le culture locali dove si vuole esportare.
Il fatto è, come afferma Giovanni Roncucci, fondatore e presidente di REP, che la maggior parte delle aziende italiane ha sempre adottato una politica manageriale empirica, ma oggi la complessità dei mercati richiede di internazionalizzarsi con metodo.
«Se poi all’empirismo – aggiunge Roncucci – aggiungiamo una sorta di cronica mancanza di predisposizione alle regole e al metodo, si comprende come un Paese a forte struttura industriale, qual è il nostro, faccia fatica a valorizzare appieno ciò che gli viene riconosciuto: la capacità di produrre, di innovare e realizzare prodotti
Ma quali sono le regole per aver successo all’estero?
Citiamone alcune: oggi non si vende nei mercati esteri, ma ci si entra per strutturarvisi. Oggi non si può cercare solo un importatore o distributore, ma un partner con cui condividere responsabilità e successi. Oggi non si vende a catalogo, ma si devono soddisfare le esigenze di quel particolare mercato. Oggi non si trasferisce know how, ma si adegua il nostro know how a quel mercato specifico. Oggi non si prova a vendere, ma si pianifica.

I processi di internazionalizzazione

Cosa manca dunque alla PMI italiana per fare questo? Secondo le analisi di REP, manca la cultura del gestire i processi di internazionalizzazione. E le ragioni sono tante, che partono dalla scuola di base e manageriale, per andare alla mancanza di strategie di penetrazione. Altro grande difetto è l’individualismo: se siamo più piccoli dei nostri concorrenti, perché non ci mettiamo insieme? Perché andiamo all’estero in ordine sparso, «per poi compattarci in una delegazione di 400 imprenditori al seguito di un Ministro, magari più per parlare al Ministro che per andare a fare veri affari?»
C’è poi il problema del conflitto d’interessi. Se è normale che un imprenditore diventi presidente di una associazione di categoria, è altrettanto giusto che lo stesso diventi poi consigliere di una banca e magari anche di un istituto di formazione o di servizi degli associati? Può giocare tanti ruoli diversi e delicati spesso in contrapposizione tra loro?
Posto che il 95% delle imprese italiane ha meno di 15 dipendenti, risulta chiara la difficoltà di contrapporsi ai tedeschi mediamente dieci volte più grandi (in Italia sono 550.000 le aziende del solo settore meccanico contro le 55.000 della Germania).

Come rimediare?

Innanzi tutto le PMI dovrebbero investire in conoscenza, in nuove professionalità, nei giovani che sanno le lingue e che hanno i titoli per entrare a tutti gli effetti in posizioni chiave per internazionalizzare l’impresa. «Occorre selezionarli e inserirli in azienda, trasmettendo loro la passione per quello che siamo e che siamo stati e che potremmo essere,anche con il loro aiuto
Prendiamo a esempio il Sudafrica, una giovane democrazia economica (da meno di 20 anni) che investe sostanzialmente in infrastrutture e formazione (esattamente il contrario dell’Italia) secondo lo slogan Education for future.  Purtroppo in Italia le istituzioni non aiutano e, come ormai siamo abituati a sentire, da almeno 20 anni siamo fermi.
In questo contesto la parola chiave è “project management” vale a dire “gestione del progetto”.
Il progetto, nel caso dell’export, è il contrario di “operazione di esportazione”: deve avere uno studio preliminare, un inizio, una durata e una fine (cioè aver raggiunto l’obiettivo). Quindi occorre conoscere il mercato, segmentarlo, entrarci per capire cosa e come posso riuscire a vendere. Poi si definiscano i tempi e i costi (gli investimenti necessari, e per questo meglio se riusciamo a condividerli con altre aziende). Quanto al partner locale, deve essere azienda con cui condividere il progetto e i risultati. Quindi non un semplice distributore.Innovation Perché serve la figura, alquanto nuova, del project manager, piuttosto che l‘export manager? Qual è la differenza?
Questa figura di nuovo tipo deve avere conoscenze di finanza, di marketing, di mercati, di strategie, di business plan, di partnership. Tutte conoscenze che non si improvvisano. Evitare quindi di affidarsi a personaggi, magari buoni venditori, che però siano inadeguati professionalmente al mondo che è cambiato e che cambia (e al paese in cui si vuole entrare). Ovviamente anche l’export manager può diventare un buon project manager, ma va indottrinato, gli si devono dare gli strumenti per essere un esperto di mercati internazionali.

Il coraggio di cambiare

Infine si abbia il coraggio di cambiare, e non c’è di meglio che partire da un periodo di crisi per cambiare, per ‘rinascere’.
Ripartire da una “education” a tutto campo, rinforzata con strumenti di management innovativo, ricordando che senza innovazione non c’è originalità e solo questa (che è alla base del Made in Italy) potrà essere vincente rispetto alla concorrenza.
Tornando alle conclusioni del professor Ciabuschi, “l’essenza della strategia aziendale si manifesta nel modo in cui l’azienda crea valore, attraverso la configurazione e la coordinazione delle proprie attività e risorse”. E aggiunge: “Tipicamente un’azienda cresce attraverso tre dimensioni: in termini di prodotto (tipologia di business), integrazione verticale (o catena del valore) e presenza geografica (crescita internazionale). ”

Quanto abbiamo sopra riportato non è che una sintesi di parte dello studio, basato su conoscenze dirette e sui risultati di una ricerca condotta sul campo dai ricercatori (in genere dottorandi) in quattro diversi Paesi emergenti e messa in confronto con la situazione italiana, particolarmente approfondita. Altre sezioni dello studio analizzano le competenze necessario per l’internazionalizzazione e come acquisirle, e prendono in esame i metodi di formazione e consulenza per supportare i processi di internazionalizzazione, con particolare riguardo ai giovani e alle aziende.