— CAPITOLO III — Una parentesi a Bruxelles

Quella sera, dopo un breve giro col piacentino andai a dormire abbastanza presto facendomi il programma per il giorno dopo. Doveva arrivare da Genova in treno il mio amico Pierino, con il quale avrei dovuto proseguire il viaggio dopo aver visitato insieme il Congresso Universale di Esperanto che apriva il giorno seguente, del quale tra l’altro mi aveva anche parlato la ragazza milanese che era venuta qui apposta e che disse di aver già incontrato diversi congressisti.

E qui occorre fare una parentesi. Perché il Congresso Universale di Esperanto?
Una delle mie manie di ragazzo era la ricerca di stazioni radio sulle onde corte. All’epoca non esisteva la FM (tanto meno le stazioni locali commerciali); la RAI sulle onde medie aveva la rete Azzurra e la rete Rossa, di televisione neanche a parlarne. Mi divertivo a cercare emittenti lontane per ascoltare le lingue che parlavano. C’erano poi anche le radio che trasmettevano in italiano dall’Unione Sovietica, da Praga ed erano tutte di propaganda comunista. Ma quelle non mi interessavano.
Lo scopo era di cercare altre lingue e di indovinare quali fossero. Una sera restai sorpreso per una lingua che non riuscivo a identificare. Capivo qualche parola simile all’italiano, seguite da molte altre il cui significato mi sfuggiva; pensavo si trattasse di rumeno oppure del romancio della Svizzera, ma non mi convinceva. Ascoltai fino alla fine sperando che com’era consuetudine sulle OC, dicessero “qui radio tal dei tali” cosí potevo individuare la lingua. Alla fine la sorpresa fu grande perché quella che trasmetteva era la Radio Vaticano. Ma non parlava latino, bensì esperanto. La cosa mi incuriosì, ma restò lì. Un giorno, casualmente vidi un piccolo annuncio sul giornale che diceva: martedì prossimo iniziano in corsi serali di esperanto presso l’istituto Leopardi di via XX Settembre.
Era l’occasione buona, tanto piú che avevo frequentato quell’istituto l’anno precedente. Ne parlai a scuola e con qualche amico e formammo cosí un piccolo gruppo di quattro o cinque ragazzi e decidemmo di andare a scoprire questo Esperanto.
L’aula era piena, c’erano persone di tutte le età con una gran voglia di imparare questa lingua. L’insegnante era un simpatico signore sulla quarantina e col labbro leporino, che ci illustrò subito i vantaggi che si ottenevano imparando l’esperanto, peraltro assai facile da apprendere. Ci garantì che al termine delle lezioni, un’ora alla settimana, saremmo stati in grado di scambiare delle conversazioni con stranieri. C’erano anche alcuni giovani, studenti universitari che erano venuti a fare, come di dice oggi, i testimonial di quella lingua, dicendo che giravano l’Europa senza alcuna difficoltà linguistica.
Iniziammo un po’ per curiosità e un po’ per gioco.
Alla fine ci fu l’esame che ci dava il diploma di primo grado. Non tutti ebbero la costanza di seguire l’intero corso, ma a giugno si riusciva a leggere racconti, articoli di riviste in esperanto e a parlare tra noi abbastanza bene.
Quell’estate andai in Germania a Stoccarda dove mia sorella viveva in quegli anni prima di trasferirsi a Bonn. Per passare il tempo e guadagnarmi qualche spicciolo andavo ad aiutare ai mercati generali di frutta e verdura dove lei era interprete presso un grosso importatore, il signor Van der Hamm, un distinto signore che ci voleva molto bene. Tanto bene che per non offendermi decise di non pagarmi con vile denaro ma di regalarmi quella che per lui era una preziosa raccolta di francobolli! Però mi fece un altro regalo. Un giorno mi chiamò e mi disse: “Vuoi andare in Olanda?” Come no. Bene allora vai a casa, prepara una valigia e torna qui. Questo
pomeriggio il nostro camion olandese ti porterà all’Aja.
Detto, fatto. Il pomeriggio salivo su un enorme camion con tre posti comodi nella cabina di guida e iniziai il lungo, e primo, viaggio sulle autostrade tedesche. I due guidatori erano olandesi veri, simpatici ma di poche parole. Con loro si parlava un po’ di tedesco. Solo una volta passato il confine olandese, si misero a parlarmi in inglese, cosa per me piú facile del tedesco che conoscevo a malapena, anche se lo scopo del mio lavoro ai mercati era appunto quello di imparare un po’ di tedesco. Durante la notte mi lasciarono dormire nella cuccetta mentre loro si davano il cambio alla guida senza neppure fermare il camion. Arrivammo all’Aja parecchio dopo la mezzanotte e mi lasciarono dormire nella cuccetta del camion, che avevano parcheggiato sotto casa di uno degli autisti in pieno centro. Al mattino mi svegliai sorpreso e preoccupato perché sentivo il fruscio della pioggia. Preoccupato misi fuori la testa e con la meraviglia di chi abita in una città tutta fatta di salite qual è Genova, mi accorsi che ero in mezzo alla città, ma non pioveva; quello che avevo sentito era il rumore di migliaia di biciclette delle persone che andavano a lavorare.
Poco dopo l’autista mi venne a chiamare e mi fece salire a casa sua dove mi offrì una sostanziosa prima colazione e mi diede la possibilità di lavarmi e cambiarmi. Quindi mi congedò con un good luck e Auf wiedersehn.
Io avevo in tasca un indirizzo: era quello dell’associazione di Esperanto dell’Aja. Andai subito a quell’indirizzo e per fortuna trovai a sede aperta con due signori ai quali mi rivolsi in quella lingua. Era la prima volta che ci provavo con degli stranieri. Dissi che venivo dall’Italia e che mi consigliassero cosa fare.
Estas bone por vi, mi dissero in esperanto. Estas grupo de gejunuloj, kiuj rondire vizitas Nederlandon. Iru kun ili, che significa c’è un gruppo di giovani che sta girando l’Olanda, vai con loro. Vi trovos ilin ĉi vespere en la Junulhotelo, kiam ili revenos de ilia ekskurso. Ogni sera infatti tornavano all’ostello che si trova a Scheweningen.
Andai a Scheweningen (che in realtà non si pronuncia come si penserebbe), che è la zona balneare e turistica dell’Aja e che è ben nota ai giocatori di scacchi perché ha dato il nome a una nota variante della Difesa Siciliana. Qui presi alloggio, in una tenda, essendo le camerate tutte piene, dove lasciai il mio bagaglio sulla branda che mi era stata assegnata e poi me ne andai a spasso per la città.
Alla sera rientrai con la speranza di trovare questi ragazzi esperantisti e di riconoscerli in mezzo una baraonda indescrivibile di centinaia di ragazzi di ogni nazionalità. Naturalmente tanto che aspettavo, quando le ragazze seppero che ero italiano pretesero che suonassi la chitarra e cantassi. Questa era l’idea fissa sugli italiani, per non parlare di spaghetti, come quando in un altro ostello due ragazze finlandesi pretesero che cucinassi spaghetti, ma senza un decente condimento italiano, dovemmo ripiegare su una orrenda salsa di pomodoro acquistata in un negozio che sapeva di tutto fuorché di pomodoro.
Finalmente, per mia fortuna a un certo punto sentii una lingua familiare e vidi infatti un gruppo di ragazzi e ragazze che portavano la stella verde all’occhiello come usava in quegli anni chi parlava esperanto, per farsi riconoscere (del resto la portavo anch’io). Andai subito a salutarli e mi accolsero come un fratello. C’era un inglese, molti tedeschi, qualche olandese, e persino uno jugoslavo e un ungherese (che all’epoca erano Paesi d’oltre Cortina di Ferro), dei belgi e altri non ricordo di che nazionalità. Nessun italiano. La maggior parte erano ragazzine tedesche che mi accolsero con grande simpatia e subito ci accordammo perché dal giorno dopo sarei andato con loro. Avevano un pulmino con il quale giravano tutta l’Olanda. Fui particolarmente fortunato perché proprio dal giorno successivo iniziavano a visitare i luoghi piú caratteristici: Volendam e l’isola di Marken dove la gente vestiva ancora in costume, Alkmaar con il suo mercato dei formaggi dove ogni “gilda” indossava il proprio costume. Andammo poi a nord fino alla diga lunga 30 km che separa i Paesi Bassi dalla Frisia, ma ci fermammo a metà della diga senza superarla. L’avrei fatto l’anno successivo appunto nel corso di questo Viaggio. L’olandese che ci faceva da guida, ci spiegava il sistema del polder, il modo in cui gli olandesi ricavavano terra dal mare per mezzo delle dighe, prosciugando e bonificando col tempo il fondo del mare. Fu un’esperienza talmente entusiasmante che mi convinsi della bontà e dell’utilità di questa lingua che all’epoca stava facendo furore presso i giovani. Uno o due anni dopo, a Genova mi chiesero di raccontare queste esperienze a un gruppo di curiosi che si erano interessati all’esperanto. E lì conobbi la ragazza che poi diventò mia moglie.

Chiusa la parentesi, ritorniamo al sabato 6 agosto dell’anno successivo, giorno di inizio del Congresso Universale di Esperanto a Bruxelles.
Il cielo quella mattina era coperto e non si preannunciava una giornata buona, ma in città è accettabile.
Uscii dall’ostello in compagnia del piacentino, di cui non ricordo il nome, e ci dirigemmo verso il Palazzo dei Congressi al Mont des Arts. Salutai il primo individuo che vidi con la stella verde e questi cominciò subito a rovesciarmi addosso un fiume interminabile di parole; mi disse di essere inglese e che voleva diffondere la democrazia nel mondo (mi pareva che qualche altro inglese lo avesse preceduto nel Settecento, l’età dei Lumi), e che anch’io avrei potuto interessarmene chiedendo speciali opuscoli presso una certa società danese e cosí via finché, per mia fortuna, mi lasciò per riprendere la stessa tiritera con altri convenuti. I vari congressisti intanto stavano giungendo sul piazzale davanti al Palazzo e si formavano piccoli gruppi: chi già si conosceva e si rivedeva dopo un anno, chi faceva la conoscenza la prima volta, ma sembrava già di conoscersi tutti. Trovai un simpatico ungherese il quale saputo che il piacentino non parlava esperanto si sentì in dovere di convincerlo, mentre io dovevo fargli da interprete. Ritrovai il signor Van der Lein che ci aveva accompagnato l’anno precedente nel giro per l’Olanda, le stesse ragazzine di Tailfingen e l’inglese, Humphrey, tutte le vecchie conoscenze di quel giro. Feci ancora amicizia con dei ragazzi torinesi, che all’epoca era un importante centro esperantista in Italia.
Poi dovetti lasciarli tutti per andare alla stazione a prendere Pierino, l’amico che arrivava verso mezzogiorno e con il quale avrei proseguito il viaggio, non senza esserci dati appuntamento con i torinesi per andare a mangiare ai grandi magazzini.

Leggi qui le puntate precedenti:
Prologo
CAPITOLO I
CAPITOLO II

Il viaggio riprende con il CAPITOLO IV in visita a Bruxelles