Il viaggio in autostop termina a Bonn, ospite da mia sorella.

Un viaggio, questo di ritorno, apparentemente senza troppe avventure anche perché per me si limitava all’arrivo a Bonn, dove abitava mia sorella e la mia prima nipotina, Arianna, che era nata pochi mesi prima. Pierino, da lì sarebbe rientrato in treno. Io invece mi sarei fermato fino alla fine del mese.

Fu un viaggio abbastanza rapido senza intoppi con un solo evento degno di memoria.

Eravamo giunti a Düsseldorf, città che nonostante il nome non era affatto un villaggio (in tedesco Dorf significa infatti villaggio). Arrivammo che già imbruniva e non avevamo la minima idea di dove fosse l’ostello rispetto al punto della città, o meglio della periferia nord in cui ci aveva lasciato l’ultimo passaggio. Non sapevamo che fare: alcuni passanti cui avevamo chiesto informazioni non seppero darci indicazioni, se non di prendere qualche tram non ben definito.

Rischiavamo da far notte e cominciavamo a preoccuparci, per cui consultandoci, pensammo di trovare una pensioncina economica dove pernottare. Facendoci coraggio ci rivolgemmo a un signore che ci sembrava avesse un aspetto bonario nella sua corpulenza da buon bevitore di birra. Gli chiedemmo innanzi tutto se sapeva indicarci dov’era l’ostello; quindi ricevuta risposta negativa, gli chiedemmo se in quel quartiere avremmo potuto trovare un posto economico dove dormire. Preso da compassione per il nostro aspetto dimesso, oppure per evitare di passare una serata come mille altre in compagnia di una moglie magari altrettanto corpulenta, ma meno bonaria, ci invitò a casa sua. Se ci accontentavamo, ci disse, di dormire in cantina. Ci guardammo dubbiosi, ma non riuscimmo a rifiutare. Vista la nostra titubanza ci disse che casa sua era proprio lì vicino. Ci dicemmo, o pensammo, che in fondo noi eravamo in due e potevamo fidarci. Andammo a casa sua.

dusseldorf_hausCi presentò a sua moglie, corpulenta almeno quanto lui, poco sorridente, che forse brontolò qualcosa in un tedesco che evitai di capire e ci disse che c’erano due brande in cantina. Per fortuna quella che loro chiamavano cantina era una grande sala, nel seminterrato, e quindi persino con una finestra, molto spaziosa e pulita. C’erano veramente due brande, materassi, lenzuola e coperte. Ringraziammo e chiedemmo se potevamo uscire per andare a mangiare qualcosa promettendo di rientrare al piú presto. Senza alcun problema ci diedero le chiavi di casa e uscimmo.

Non credevamo alla nostra fortuna, che ovviamente festeggiammo con una birra e un paio di würstel.

Passammo una notte tranquilla, senza topi e senza fastidi. Al mattino quando fummo pronti per uscire ringraziando per l’ospitalità, fummo colpiti nel vedere che la signora, che poi non era cosí brontolona, ci aveva preparato una tavola con tanto di tovaglia, piatti e tazze, nonché marmellata fatta in casa e burro, pronti per la nostra colazione. Scusandosi per la semplicità, prese da un cassettone un enorme pane nero e poggiandolo contro il voluminoso petto, con un coltellaccio prese a tagliare fette enormi, ma altrettanto apprezzate. Fu una delle migliori e piú ricche prime colazioni di tutto il nostro viaggio.

La tappa a Düsseldorf merita una breve parentesi : all’epoca non potevo immaginare che sarebbe diventata una mia meta periodica a partire dagli anni ’90, in quanto è una città che ospita importanti fiere nei settori della stampa e del packaging, e in particolare la ‘drupa’. Naturalmente da allora la città è cambiata molto.

Ci congedammo ringraziando i nostri gentili ospiti promettendo ovviamente di mandare una cartolina dall’Italia; quindi ci avviammo sula strada per quella che doveva essere la nostra ultima tappa attraverso Colonia e quindi Bonn Bad Godesberg, dove giungemmo nel primo pomeriggio. Ovviamente, dopo l’abbondante colazione di Düsseldorf  quel giorno non ci ci fermammo più a perder tempo per cibarci alla ventura. Prima o poi saremmo stati in una vera casa.  La meta era ormai vicina e non si vedeva l’ora di arrivare in una casa vera, anche perché la sola casa normale fino ad allora visitata era quella della famiglia di Inge, dove comunque non avevamo né un letto né un bagno dove fare la doccia.

A Bonn il viaggio si era ufficialmente concluso. Mia sorella, che ci accolse come eroi reduci dalla campagna di Russia, ci rifocillò.
Pierino restò ancora uno o due giorni, non ricordo. Ricordo solo che un giorno ci recammo a Colonia portando con noi Arianna, che aveva quattro mesi e stava in una culla portatile che noi prendevamo, uno per parte. duomo colonia
Cosí visitammo il famoso Duomo che assomiglia a quello di Milano. Sul sagrato qualcuno ci chiese se era nostra figlia. Non potemmo fare a meno di scoppiare a ridere e far notare a parole e a gesti, che eravamo non tanto due ragazzi, ma soprattutto due maschi, il che rendeva piuttosto improbabile quella possibilità (almeno a quei tempi). Il burlone che aveva fatto la domanda ci restò male, ma tanto i commenti li aveva fatti in tedesco e quindi a noi importava poco, anche perché non c’è niente di meglio che non capire una lingua quando non si vuole.

Pierino partì in treno per Genova e io mi accinsi a passare un paio di settimane a Bonn. Con Mity e Thomas c’era la possibilità di fare delle interessanti gite nei dintorni, sul Reno e nelle cittadine dei dintorni. Già gli anni precedenti ero stato da loro in estate, quando abitavano ancora a Stoccarda. Da poco Thomas era stato chiamato al Ministero dell’Economia e quindi si erano trasferiti nella (allora) capitale della Germania Occidentale.

La loro casa era a Bad Godesberg la zona residenziale a sud della città, sul Reno. Quando abitavano a Stoccarda avevo avuto occasione di fare parecchie gite nella Foresta Nera e in alcune cittadine storiche come Tübingen, famosa per la sua Università e per essere la città di Goethe, o a Ludwigsburg, sede di una residenza imperiale, o in altre splendide località.

Nella palazzina in cui abitavano, tra i vicini di casa, c’era la famiglia dell’attaché dell’Ambasciata turca. Il quale aveva una figlia, Sezen. Aveva anche un figlio, ma quello non mi interessava. Giorno dopo giorno con Sezen cominciammo a frequentarci. La nostra lingua di contatto era l’inglese che preferivo al tedesco. Sezen era una ragazza di 18 anni, dai capelli neri, ovviamente, lunghi e molto lucidi. Aveva occhi neri molto belli e grandi e io ero convinto che l’azzurro delle palpebre fosse naturale. Mi arrabbiavo quando mia sorella diceva che se le tingeva e sostenevo che non era affatto vero, che avevo guardato bene e cose del genere. Sezen era non solo molto bella, ma anche molto simpatica e passavamo molte ore insieme. E sua madre, naturalmente, era sempre con noi. Anzi una sera la madre volle leggermi i fondi del caffè, secondo l’usanza turca, prevedendo per me, guarda caso, una moglie straniera. Sezen si era intanto messa in testa di insegnarmi il turco di cui ricordo una sola frase che vuol dire ‘’io parlo turco’’. Un giorno, dopo essere andato in centro Bonn tornai a casa con un manuale, ma non avendo trovato un corso o una grammatica di turco per italiani che all’epoca forse non esisteva, almeno in Germania, tornai con un frasario tedesco-francese-turco. Naturalmente mia sorella non faceva che prendermi in giro. Sezen mi aveva convinto che il turco è una lingua importante parlata anche in altri Paesi, anche se non ho mai scoperto quali. Insomma, come captai da un discorso che mia sorella Mity fece una sera tra amici in tedesco, pare che io avessi dato l’impressione di essere cotto.

Senonché, proprio in quei giorni, ci fu in Turchia un colpo di Stato. Uno dei tanti. Avevano preso il potere i militari, per cui tutti i diplomatici all’estero furono richiamati. Vissi con trepidazione quell’evento come se si trattasse del mio Paese. La famiglia di Sezen doveva tornare in Turchia e neppure sapeva come sarebbero andate a finire le cose. Quando partii per rientrare a Genova, loro cominciarono a preparare i bagagli per il lungo trasloco.

L’unico aspetto positivo della faccenda era che si sarebbero imbarcati a Genova per rientrare via mare a Istanbul, da cui proseguire per Ankara. Quindi avrei avuto ancora occasione di incontrare Sezen, che mi guardava con occhi languidi e che io forse guardavo con occhi da pesce bollito.

Fu infatti dopo pochi mesi che a Genova ebbi l’occasione non solo di incontrare ancora Sezen e la sua famiglia, ma anche di aiutarli nella non facile fase di imbarco con tutti i bauli e bagagli che si portavano dietro. Prestammo loro anche dei soldi, che restituirono, e per riconoscenza Sezen mi regalò un bellissimo e complicato anello d’argento con una scritta in turco con l’alfabeto arabo antico che usavano prima della riforma. Un anello che se lo smontavi formava una specie di catena e l’abilità consisteva nella capacità di rimontarlo.

Con Sezen restammo in corrispondenza ancora per qualche tempo, ma poi il rapporto si affievolí fino a dimenticarci l’uno dell’altra.

L’anno successivo, sempre a causa dell’esperanto, conobbi una certa Lucia, una ragazza interessante, carina e intelligente con la quale iniziai a fare lunghe passeggiate alla fine del pomeriggio: quando io avevo finito di studiare, passavo a prenderla all’uscita dall’ufficio dove lavorava presso un architetto. Quelle lunghe passeggiate, e tante gite in montagna col gruppo dei suoi amici escursionisti, ci avvicinarono sempre di più.  Non solo ma quando poteva mi accompagnava sui monti per assistermi nello svolgimento della tesi di laurea che svolgevo con una ricerca sulla stratigrafia e tettonica dell’Appennino ligure, e insieme costruimmo uno splendido modello in legno e gesso che riproduceva la carta geologica della zona con un fetta che ne illustrava il sottosuolo; modello che fu molto apprezzato alla discussione della tesi e che mi fu chiesto di lasciare all’Istituto di Geologia.
Infine, terminata l’Università e verso la fine del servizio militare, quand’ero sottotenente degli Alpini a Feltre, decidemmo di sposarci e, quando trovai il mio primo impiego, ci trasferimmo a Milano.
Divenne così la mamma di Micaela e Enrico, e la nonna di Jacopo, Nicolò, Michele e Margherita. Oggi sono passati 55 anni, e 50 dal matrimonio.