La storia incredibile di Sinán Qapudán Pasciá, – ricordato da Fabrizio De André nelle sue canzoni in genovese – al secolo il genovese Scipione Cicala, che catturato ragazzo  dai turchi fa carriera fino a diventare ammiraglio della flotta ottomana, invincibile nelle ‘guerre di corsa’ , ma senza dimenticare il suo amore per la mamma.  Bruno Francesco Sacone, appassionato storico di Genova, ha raccontato in uno studio approfondito, che riportiamo qui in sintesi.

           “e questa a l’è a ma stöia  //
e t’ä veuggiu cuntâ
n po’ primma ch’à vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
                e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá
      *

Fabrizio De André tra le sue belle canzoni in genovese ci ha lasciato anche questa testimonianza di quando anche i nobili diventavano schiavi addetti al remo sulle galere dei saraceni.
Siamo nella seconda metà del XVI secolo. Genova insieme alla Spagna, e in conflitto con Francia e Venezia, è una potenza. Sta per iniziare il Secolo d’Oro di Genova, quello che vede sorgere tutti quei palazzi che hanno dato vita alla Via Aurea (o via Nova, oggi via Garibaldi). La nobiltà mercantile genovese faceva a gara per costruirne uno piú bello e piú ricco dell’altro.  Sono i secoli che vedono in quasi tutti i mari del mondo, l’affermarsi della ‘guerra di corsa’ basata sugli attacchi alle navi – permessi, se non voluti dagli Stati – per impossessarsi dei loro preziosi carichi.
Come funzionava? Chi riceveva la ‘lettera di corsa’ da un governo otteneva la possibilità di attaccare navi nemiche (anche mercantili) in piena legalità. Per questo anche i piú grandi ammiragli (compreso il piú grande di tutti: Andrea Doria) possedevano e utilizzavano questa facoltà. E si arricchivano.
La guerra di corsa, non è confondere con la pirateria: gli attacchi dei pirati dovevano essere più veloci e non intercettabili per non essere identificati. Solo un corsaro poteva assalire una nave e il bottino era messo all’asta legalmente dal corsaro. Una parte pagata allo Stato di appartenenza, o il capo della famiglia/società, o il sultano di Costantinopoli.

Palazzo Cicala

Loggia e Palazzo Cicala in piazza delle Scuole Pie

La storia che Bruno ha documentato con una ricca bibliografia, inizia nell’ottobre nel 1538. Una forte flotta cristiana al comando di Andrea Doria, entra nel mar Ionio per contrastare la flotta ottomana che in quegli anni dominava quasi tutto l’Egeo. Dopo varie battaglie ben descritte nel racconto citato, Andrea Doria conquista la città di Herceg Novi (nell’attuale Montenegro) in possesso dei turchi. Uno dei comandanti che vi fa sbarcare per la presa della fortezza è Vincenzo Visconte Cicala: un giovane genovese membro della famosa famiglia argomento di questo racconto.
Qui occorre una parentesi. I Cicala erano una antica famiglia consolare, non si sa bene se originari della Liguria di Levante o di Ponente, e con una strana storia all’origine del nome. Secondo il ‘Teatro genealogico’ del Tubestel, fu un soldato che in una delle tante battaglie contro i pisani ottenne la vittoria al canto delle cicale. Per riconoscenza ne fece incidere sette sul suo scudo. A parte questa leggenda, l’insegna di famiglia fu, dal 1432 un’aquila bianca. Ma già del XII secolo questa famiglia vantava personaggi illustri: diplomatici, giuristi, e persino cardinali, fino a un governatore della Corsica e un doge. Ricchi banchieri, ma onesti, tanto da avere un motto: “
Ricorda che la cicala canta, ma non mangia”.
A Genova, il palazzo di famiglia che possiamo oggi ammirare nell’omonima piazzetta (in realtà un vicolo) tra Sottoripa e piazza San Pancrazio nel sestiere della Maddalena, fu edificato nel 1542, proprio nel periodo in cui si svolge la nostra storia. Altro Palazzo dei CIcala si trova in piazza delle Scuole Pie, nei pressi della Cattedrale.
Storia che però, riguarda un altro ramo: quello di Messina, dove parte della famiglia si era trasferita per svolgere i propri affari mercantili.
Torniamo a Visconte Cicala. Nato a Genova nel 1504, all’età di 31 anni partecipa alla conquista di Tunisi, al comando di Andrea Doria.  Visconte prende prigioniera la figlia del Bey una giovane donna (musulmana) di una bellezza straordinaria e di una eccezionale forza interiore. Visconte, che in un primo momento la fa schiava, non può che innamorarsene e chiederla in sposa. La ragazza si converte al cristianesimo (mantenendo comunque rispetto verso l’Islam) viene battezzata e sposa il corsaro. Il nuovo nome che sceglie di assumere è Lucrezia. Sarà un matrimonio duraturo e ricco di numerosa prole.
All’epoca la Sicilia era un’isola governata dagli spagnoli, ma economicamente dominata dai Genovesi. Messina, allora una città molto bella, era una sorta di base della flotta imperiale, e Visconte vi si stabilisce facendone la sua città di riferimento e la nuova patria famigliare.
Si specializza nella guerra di corsa, mettendo a disposizione a pagamento, la sua piccola ma forte flotta. Visconte è un personaggio particolare dal carattere iroso, come si usa dire “si legava al dito” ogni ingiustizia nei suoi confronti anche con i grandi (litigò con il ‘difficile’ ma potente cugino di Andrea Doria quell’Antonio Doria il cui splendido Palazzo è oggi sede della prefettura di Genova). Ricondotti entrambi a più miti consigli per ordine addirittura di Carlo V, la loro momentanea pace porterà alla vittoria di Sfax (giugno 1540) della flotta cristiana sempre al comando di Andrea Doria e con Ferrante Gonzaga. 

Lucrezia moglie e mamma esemplare

La vita di Visconte Cicala è legata a Lucrezia donna avvenente, sposa fedele che vive insieme al marito a Messina; una donna in qualche modo magica e non solo per la bellezza. Il legame tra Visconte e Lucrezia doveva essere forte e nel seguito capiremo di fronte alle terribili vicende della vita, che tipo di forza ai sentimenti sapeva dare e ottenere Lucrezia, vero monumento al valore della famiglia e di quel ruolo di “Donna”, di compagna, moglie, madre, guida della famiglia: insomma un collante indistruttibile.
Visconte diventa sempre più un grande corsaro e sempre più si arricchisce. La guerra di corsa fu durissima per tutte le parti. Interi paesi venivano bruciati o distrutti, navi affondate o depredate, persone uccise nei modi più terribili, donne e bambini massacrati o imprigionati, riscatti e contro riscatti il tutto condito da migliaia di persone che rinnegavano la propria fede (o per salvarsi o per migliorare la propria condizione). Per lunghi anni la guerra di Visconte sarà una sorta di guerra personale, non solo contro gli ottomani, ma anche contro Venezia da sempre nemica della sua Genova (e della Spagna).
Visconte litigherà con molti ma collaborerà sempre con Andrea Doria, l’unico cui sottometteva la sua autonomia.  Lo scopo di Visconte era razziare navi veneziane oltre che turche, provocando numerosi incidenti con Venezia, vera spina nel fianco per la Serenissima. La sua nave, il suo Galeone divenne un mito del mare, con lui al comando la vittoria era quasi sicura ed era visto dai Messinesi (e dai Genovesi) come un vanto, mentre era temuto dagli Ottomani e odiato dai Veneziani. Quando il mitico “Galeone Cicala” arrivava a Messina, era sempre una festa, l’immenso carico commerciato o razziato riempiva il fondaco e dava ricchezza alla città.
Tra una scorreria e l’altra, nascono i figli che Lucrezia gli regala: due femmine e tre maschi. Lasciamo a questo punto il racconto originale per dedicarsi al secondo dei tre figli maschi: Carlo, Scipione e Filippo.
Lucrezia gestisce un ottimo rapporto con l’intera famiglia. Saprà rispettarne le difficili scelte anche quelle profondissime e laceranti che i suoi figli faranno. Tutto sembra in qualche modo assicurare alla famiglia un futuro certo: la posizione originaria con i Cicala genovesi che erigono Palazzi, il fratello di Visconte che diventa cardinale, la ricchezza, il ruolo diplomatico importante nel mondo di allora, il valore militare, la gloria, l’ingresso alla grande di Visconte (cavaliere di San Giacomo della Spada) nel potere cittadino Genovese e soprattutto Messinese.

Stemma araldico della famiglia Cicala

Col passare degli anni Visconte comanda sempre meno il suo mitico Galeone e solo quando il suo comando è richiesto dal governo (spagnolo), partecipa ancora direttamente. L’ultima sua avventura al comando del suo mitico Galeone è del 1559. Una flotta cristiana di 100 galee si raduna a Messina pronta per spostarsi a Malta e poi accattare Tripoli e battere Dragut. Il comando è affidato a Gian Andrea Doria, bravo ma non simile come bravura e umiltà al padre adottivo, Andrea Doria che è ancora vivo e aspetta notizie del suo erede.
Dopo qualche mese viene presa Gerba, ma un’enorme flotta Ottomana (250 navi) sopraggiunge velocissima e inattesa da Costantinopoli e sono guai grossi. Senza entrare nei dettagli della famosa battaglia e sconfitta, il fatto è che la flotta cristiana si disperde prima ancora di combattere per il terrore. Gian Andrea Doria e altri riescono a fuggire. Ma una parte della flotta e delle truppe di Juan de la Cerda y de Silva, quarto duca di Medinacoeli, prese dal panico, non riescono a muoversi in tempo; la disorganizzazione regna, l’isola è perduta e parte della truppa cristiana è uccisa o presa prigioniera. I vincitori tra cui il famoso rinnegato calabrese Uluccialì infesta il Mediterraneo.
Ma uno solo di parte cristiana riesce a reagire immediatamente: proprio lui Visconte, che pur perdendo una galea riesce con il mitico Galeone a riempire di bombe la flotta turca e a ritirarsi con gloria fino a rientrare a Messina. Andrea Doria (94 anni) morirà contento di sapere il figlio adottivo Gian Andrea salvo. Anche l’onore dei Cicala è salvo. L’ultima impresa personale dell’anziano Visconte è fatta.
Il suo Galeone, ben armato e ben guidato, continua per anni ancora a imperversare. Il comandante è prima Bernardo Lomellini genovese (ex secondo di Visconte); successivamente un Usodimare (sempre Genovese) quindi sempre un grande uomo di mare al comando con 300 uomini e 22 pezzi d’artiglieria. Molti sono quelli che vorrebbero imbarcarsi per diventare corsari a bordo del “mito”. Perfino un gruppo di veneti diverrà parte dell’equipaggio che avrà tra le sue forze moltissimi greci.
La nave ne combina di tutti i colori a Turchi e Veneziani: si finge un’innocua nave anconetana di proprietà fiorentina e assalta una nave veneziana, si scontra con i Turchi comandati dal mitico Uluccialì ma riesce a sfuggire. Utilizza la rete di famiglie e conoscenze dei suoi marinai greci per creare una sorta di “intelligence” sulle coste occupate da Veneti e Turchi conoscendo e tracciando così le navi nemiche e i loro movimenti e potendo scegliere le prede.

Il giovane Scipione

Ma è a seguito di un’avventura dimenticata ma incredibile, che accade il primo passo di un terribile cambio nella vita della famiglia Cicala, e di Lucrezia.
Al comando viene posto un giovane, tal Filippo Cicala, non il figlio di Visconte ma il nipote, figlio di un vescovo. Coraggioso e ardito ma non esperto di mare e navi come avrebbe dovuto. Durante uno dei tanti attacchi a navi turche e veneziane Filippo, con il mare in tempesta, manda la nave su secche e scogli. Il Galeone si distrugge in mare. Molti uomini si salvano raggiungendo terra ma è terra turca e vengono imprigionati. Altri si salvano, ma sono catturati dai Veneziani. Alcuni greci vengono impiccati. I Veneti che erano a bordo del Galeone vengono mandati per tre anni al remo, il comandante viene imprigionato. Un dramma per ora limitato scuote la famiglia Cicala che interviene, del resto Filippo è figlio di un vescovo, nipote di un cardinale amicissimo del Papa; si scusa afferma di essere stato comandato a depredare dallo zio Visconte, di avere attaccato i Turchi e di avere avuto sempre pietà verso i Veneziani, fatto sta che viene liberato con la promessa di non attaccare mai più i Veneziani.
Siamo nel 1561. Visconte saprà della fine del suo mitico Galeone, ma anche della salvezza del nipote. Tutta Messina sa che non tornerà più alla base quella nave mitica, spesso ricca di bottino e di gloria. Anche Lucrezia lo sa e forse ne teme le conseguenze; forse perché conosce il suo uomo e sa che non accetterà di fermare lì la sua storia per mare.
Visconte tenta di acquistare una nuova nave e pensa di comprare una galea che i Siciliani avevano appena preso ai Barbareschi e ancorata a Messina ma Antonio Doria con cui nuovamente non è in buoni rapporti interviene presso il viceré di Sicilia per impedirlo. Vecchie ruggini riaffiorano. Il Cicala non ci sta e prova ad averla chiedendo l’intercessione direttamente a Filippo II.
Per interagire con lui e ottenere udienza, Visconte parte da Messina con il figlio Scipione di 17 anni, ma già sa di cose di mare, già conosce la Guerra di corsa.  Scipione, è molto legato alla mamma, ma già è impaziente di imparare l’arte di compiere la prima guerra di corsa, ma è molto giovane.
Scipione è avvenente (quasi effeminato nella bellezza e questo conterà). Le navi salpano per la Spagna, ma non è Visconte al comando e la nave non è più il suo Galeone. Ad aspettarli dietro Marettimo ci sono le navi del Dragut che attaccano. La battaglia è terribile i morti sono tanti da entrambe le parti, ma le navi cadono in mano Turca e vengono portate a Tripoli. Visconte e Scipione sono fatti prigionieri: è l’inizio del 1561.
La tragedia si abbatte sui Cicala. Il maestro dei cavalieri di Malta La Vallete (da cui ha preso il nome la capitale, La Valletta) interviene e riesce a liberare e riscattare alcuni degli importanti prigionieri. Ma non i due Cicala: è il prezzo della fama e della gloria. Incalzato dal cardinale fratello di Visconte e zio di Scipione, interviene il Papa e prova a interessare anche i Veneziani che ben ricordano le scorrerie dei Cicala. Dragut capisce che sono prede anche più importanti di quanto aveva creduto e decide di farne omaggio al sultano (Solimano) e spedisce i due a Costantinopoli. È il 17 settembre 1561, inizia la grande tragedia e avventura. Visconte è un uomo di mare molto esperto sulla cui liberazione i Turchi hanno forti dubbi, viene quindi rinchiuso nella fortezza (ancora presente a Istanbul) del castello delle Sette Torri.
E Scipione? Scipione il ragazzo, anzi… il bel ragazzo?  Scipione è destinato al Serraglio (la corte del sultano); si racconta che il sultano fosse colpito dalla sua bellezza e che in qualche modo se ne invaghisse risparmiandolo e tenerlo a corte per provare a ‘educarlo’. È un altro momento terribile per la famiglia Cicala. Lucrezia viene chiaramente a sapere della situazione: il suo uomo, suo marito è nella capitale nemica, portato come schiavo insieme con uno dei suoi figli.
Liberare Visconte è difficilissimo, troppo famoso come comandante troppo flebile la trattativa per salvarlo. Genova ci prova! Manda un importante rappresentante dall’isola di Scio (suo possedimento) che offre una tregua tra Genova e i Turchi, ma niente da fare. Provano anche gli spagnoli, ma non hanno più poteri di negoziazione; provano anche i francesi loro e intervengono anche mandando come rappresentante un Genovese (un Giustiniani) ma non riescono (Visconte è troppo un “grande corsaro”). E i Veneziani? Per loro Visconte è un nemico e quindi volenti o nolenti non riescono a ottenere niente. Si racconta che Scipione si sia concesso al sultano e si dichiari pronto a rinnegare la sua patria e la sua fede per salvarlo e che Visconte sia così tornato a casa. Ma questa versione regge poco, perché in realtà la permanenza nel terribile castello gli è fatale e muore a Costantinopoli il 12 dicembre 1564.
Di Scipione una cosa certa la sappiamo: si converte e accetta di farsi educare a corte; ottiene dal sultano Solimano una degna sepoltura per il padre in una chiesa (S. Francesco di Pera) nel quartiere Genovese di Galata, si fa circoncidere e inizia a seguire il destino di tanti ragazzi cristiani. Una pratica ai tempi molto diffusa per aver salva la vita, per uscire dalla schiavitù e non poche volte per migliorare sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista economico la propria condizione di schiavo. E chissà oggi quanti turchi hanno origine genovese, veneziana, calabrese…
Per la parte turca questo fenomeno era molto importante perché garantiva un passaggio di “know how” dal mondo occidentale a quello turco che ricordiamo, non va confuso con la cultura araba. A favore di questa situazione va anche segnalato (per alcuni casi) che in quel preciso momento storico (quindi come fatto contingente) la società islamica rappresentava una scelta di libertà di pensiero e di possibile progresso sociale di fronte alle gravissime persecuzioni che le guerre apparentemente religiose come quella dei trent’anni portavano con sé.
A differenza dell’Europa, il concetto di “casta “ nobiliare in senso stretto non apparteneva alla cultura turco-islamica che non riconosceva l’aristocrazia per nascita.
Tralasciamo qui la disquisizione, interessantissima, del racconto originale sulla cultura islamica in fatto di religione e rapporto con gli ‘infedeli’, tutt’oggi valida.
Da qui si comprende come a molte famiglie cristiane furono rapiti i figli maschi primogeniti per essere portati a Costantinopoli, forzati alla conversione, educati alla guerra e inquadrati nel mitico corpo dei Giannizzeri.  Da queste conversioni più o meno scelte verranno espressi sia grandi comandanti militari (in particolare i Qapudan Pascià, comandanti della flotta ottomana) ma anche Bey (signori o reggenti) di città come Algeri o Tunisi e Gran Visir (primi ministri secondi solo al sultano).

Scipione Cigala, il turco Ciğaladze 

Scipione diventa Ciğaladze

Scipione, entrato nel Serraglio e convertitosi, fa una rapidissima carriera, sicuramente per la sua bravura ma, si vocifera, anche perché il sultano (debole e alcolizzato) Selim II lo volle tra i suoi ‘favoriti” per la sua avvenenza.
Nel 1574, a soli dieci anni dalla sua conversione, Scipione già aveva comandato galee turche. Aveva anche cambiato nome e decise di farsi chiamare Ciğalazade Yusuf Sinan Paşa (pronuncia persiana) o Cağaloğlu Yusuf Sinan Paşa (pronuncia turca), dove Ciğaladze (o Cağaloğlu) rappresenta la devozione famigliare dato che significa figlio di Cicala (Çigä in lingua genovese).
Inizia così la sua storia di corsaro turco: la flotta turca si presenta al largo di Tunisi con Sinan Pascià (il rinnegato Scipione Cicala) alla testa di molte galee, 30 galeotte e 40 vascelli. A fine agosto, cade la fortezza di La Goletta dopo cinque settimane di assedio: massacrati quasi tutti i difensori, sono lasciati vivi soltanto il comandante, Pietro Portocarrero, gli ufficiali e coloro che possono procurare un buon riscatto. Cadono nelle sue mani 300 pezzi di artiglieria.
Ormai è un vero comandante turco e anche a massacri non si fa mancare niente. La sua ascesa è continua e passa a comandare uno squadrone di cavalleggeri e già nel 1575 diventato capo dei Giannizzeri. Un ruolo importantissimo. Ma la lotta che affronta è durissima: lui anti veneziano (al cuore e ai geni non si comanda) dovrà vedersela con la madre del nuovo sultano Murad III figlio di Selim II e appunto di Nur Banu la splendida, che in realtà era la meravigliosa e molto intelligente nobile veneziana Cecilia Baffo, rapita dai turchi poi convertitasi e diventata favorita del sultano, e madre del nuovo sultano.
Alla corte ottomana Ciğaladze sposa nel 1576 la nipote di Solimano, figlia del Gran Visir del momento. Un matrimonio che gli serve per arricchirsi ed entrare a grande livello nella corte imperiale, una corte che quanto a intrighi e guerre interne aveva ereditato e superato quella bizantina. Qui si vede la maestria finanziaria di un Cicala adattata agli usi della corte ottomana: un amore, o meglio un rapporto, costruito sul futuro di potenza e di ricchezza.
Per Scipione, restava solo il profondo sentimento di amore per sua madre. Passano gli anni e anche per i contatti con altri famigliari e notizie giunte per varie vie, l’amore resiste. E lo stesso la madre Lucrezia che non abbandona più nel suo cuore il figlio.
Sposando la figlia di Ahmed Pascià e la relativa dote, Scipione (Ciğaladze) è ormai ricchissimo. Se non bastasse, alla morte della giovane moglie, ne sposa la sorella sempre nell’ottica di mantenere e accrescere ulteriormente la sua posizione e la sua ricchezza che a questo punto è imbarazzante.  L’ambiente della corte è complesso e ricco di “guerre interne” infarcito di vendette pesantissime e odi continuamente coltivati, ma Scipione si muove benissimo. Il percorso di Scipione è ricco di alterne vicende che lo vedono alla lunga salire sempre di più nei ruoli militari, politici e nella sua influenza a corte. La sua genía di corsaro si dimostra sempre piú piena. E non si dimentica dei Veneziani.
La sconfitta turca di Lepanto è alle spalle, la Sublime Porta pur ancora terrorizzando i mari si rivolge a terra e si espande in tutte le direzioni. La Persia è ora un fronte vitale e lì Scipione si guadagna sul campo la fama di comandante coraggioso, fine e acuto. Nel 1585 è governatore di Baghdad, ma in concorrenza con Ferlait Pascia, altro favorito del sultano; fino al 1588 rimane in Persia impegnato nella lunga guerra con i Persiani. 

Scipione diventa Qapudan Pascià

Se il suo legame con la madre lontanissima (non la vede dal 1561), non si raffredda, anche l’amore per il mare ritorna prepotente. Desidera fortemente il ruolo di Qapudan Pascià quindi grande ammiraglio della flotta imperiale Ottomana.
Un percorso molto difficile ma non per un Cicala. Tramite l’utilizzo delle sue conoscenze a corte e di una fortissima donazione al sultano Murad III e doni preziosissimi, ottiene il risultato nel 1591: Scipione diventa Qapudan Pascià, responsabile dell’Arsenale e, come precisa il bailo veneziano Matteo Zane nel 1594, “
beglierbei dell’isole, dell’Arcipelago e delle marine”.
Ogni cinque anni la carica deve essere rinnovata e il costo sarà sempre alto. Scipione quindi continuerà la sua guerra di corsa.
Ma intanto suo fratello Filippo (l’ultimo dei figli di Visconte) è a capo di una squadra di galee costruita appositamente per contrastarlo e dargli la caccia. Combattevano uno contro l’altro e si amavano, e condividevano l’amore reciproco verso la madre che a loro corrispondeva. I contatti con la famiglia non si erano mai interrotti. Nel 1593 il fratello più grande Carlo lo incontrava a Costantinopoli (cosi riportano le spie veneziane).
Venezia era indignata e rabbiosamente sorpresa che Scipione “Ciğaladze” ricambi il loro odio. La potenza di Scipione sembra all’apice, un innalzarsi mal visto da Venezia ma ben apprezzato dagli spagnoli.
Come raccontano i baili, Scipione da vero Cicala costruisce “
perversi disegni di far… preda in tutto il Golfo di Venetia”, “levate diverse robbe dalle navi et vassellì di mercanti venetiani et fatti diversi schiavi diversi sudditi loro”, che poi trattiene ostinato, “indebitamente e contra i capitoli della pace del 1573, nel suo Bagno, esigendo un esoso riscatto”.   Così viene descritto dai rappresentanti della Repubblica del Canal Grande: nemico dichiarato “capitalissimo” di “tutti li cristiani”, quello che afferma “che niuna cosa bramava al mondo più che il bevere il loro sangue”, ma è anche colui il quale, tra le potenze cristiane, più di tutte, odia Venezia: all’ambasciatore francese confida “che si contenterebbe di morir il giorno dietro che havesse preso Venetia”. La motivazione è sempre la stessa: il comportamento di Venezia sempre pronta a ogni accordo tradimento o ripresa che possa difendere i suoi domini nell’Egeo, Mediterraneo e Ionio iniziati nel 1204 con la “crociata” (la quarta) che invece di andare a conquistare il Sacro Sepolcro andò a massacrare i Bizantini con un enorme eccidio, a prendere Zara, Spalato e Costantinopoli (distruggendo anche il quartiere Genovese) portando in Piazza San Marco i famosi cavalli.

Nel 1594 una grande flotta turca al commando di Scipione, con ben settanta galee si aggira nel Mediterraneo occidentale e arriva di fronte Messina, dove ancora abita sua madre.
La flotta ottomana al comando di Scipione è sempre più vicina: alcune fonti riportano che egli chiede di poter incontrare la madre ma gli viene negato l’incontro, in una lettera successiva all’episodio riporterà che ”
mi credevo che vi haviano posto in carcere… et per questo fu causa che io mettessi a sacco Rigio”. Scatta di conseguenza la vendetta per il mancato incontro; ma ne siamo sicuri?  La flotta imperiale/spagnola con molte altre navi occidentali stranamente non è in zona. Scipione attacca ma non Messina, bensì i paesi della costa calabra fino a distruggere Reggio Calabria: distruzione che alle cronache appare “particolare” perché la popolazione riesce in gran parte a rifugiarsi altrove avendo il tempo di spostarsi con quasi tutti gli averi. Sbarcano anche i terribili Giannizzeri sulla costa siciliana, ma si ritirano subito dopo un breve scontro.
A farla breve, la flotta occidentale arriva a Messina al comando di Gian Andrea Doria solo dopo ventotto giorni. Un ritardo dovuto ad accordi tra Scipione e l’imperatore spagnolo? Di questo aveva parlato con il fratello Carlo incontrato pochi mesi prima a Costantinopoli? Lasciamo il dubbio, di sicuro c’è che Messina è intatta. La potenza di Scipione sembra all’apice, un innalzarsi mal visto da Venezia ma ben apprezzato dagli spagnoli.
È chiaro che ci sia quindi chi sostiene che quest’attacco fosse una messa in scena. Forse la Spagna, appena colpita dalla sconfitta della Invincibile Armata chiese di non essere ferita in un momento così difficile. Fatto sta che la lettura di questa vittoria sprecata lo precede alla corte del sultano, e qui inizia una caduta verticale di Scipione in questa sua vita che sembra un incredibile ‘giallo’ anche più movimentato di quello del padre.
Le voci circolano, il Qapudan Pascià non ha vinto. Poco dopo il suo arrivo nel dicembre del 1594 muore il sultano che lo aveva nominato (Murad III) e il figlio Maometto III ne prende il posto. La madre di Maometto III si schiera con la corrente pro-veneziana e forza il figlio a destituirlo dalla carica di Qapudan Pascià che viene concessa a un suo acerrimo nemico a corte. Tutto dunque sembra perduto ma incombe una nuova battaglia di terra nella pianura ungherese. Le truppe turche sono in difficoltà, si susseguono i rovesci militari e l’insubordinazione dilaga; comincia una possibile rimonta di Scipione, anche se il sultano non ha in questo momento occhi buoni nei suoi confronti. Scipione impone le sue condizioni per tornare ad affiancare il sultano ma ecco che un colpo di estrema bravura strategica e di fortuna lo aiuta. 

Scipione diventa Gran Visir

Nel 1596 l’enorme esercito turco combatte malamente la guerra (nota come la Lunga Guerra) contro gli Asburgo; Scipione ne guida una ridotta parte (circa un sesto degli uomini), si distacca dal corpo centrale ma anche lui subisce varie sconfitte; sembra che finalmente gli ottomani stiano arretrando durante la battaglia di Mezö-Keresztes. Succede, infatti, che quando sembra che ormai le truppe asburgiche abbiano vinto, quando lo stesso sultano con grande difficoltà fugge dal campo di battaglia, per non essere catturato, le truppe asburgiche si lancino sul campo turco al grido di vittoria! vittoria! E inizino a massacrare i Turchi in fuga e a dedicarsi al saccheggio delle grandi ricchezze del campo avversario. A questo punto Scipione decide di attendere con le truppe che gli sono rimaste, in posizione defilata, disobbedendo al sultano che aveva comandato un ripiegamento. La posizione sua e delle sue truppe non viene considerata dagli Asburgo. Scipione coglie con un’imboscata il momento decisivo. Piomba con le sue truppe sugli imperiali vincitori e li sorprende praticamente disarmati e disattenti. La vittoria imperiale si trasforma in sconfitta. Il sultano è salvo, la battaglia rovesciata nelle sorti e tutto per il merito di Ciğaladze. Il sultano resosi conto sia del pericolo scampato sia dell’enorme vittoria che prolungherà una guerra quasi persa, il giorno dopo nomina Scipione, cui deve la vita, Gran Visir e pubblicamente di fronte alle truppe entusiaste toglie con forza il mitico e preziosissimo gioiello a forma di penna di airone dal suo turbante donandoglielo. Ciğaladze assume la maggior carica dell’impero ottomano. 

In questa carica che segna il suo apice politico, Scipione durerà poco perché non è un vero politico e non saprà cambiare atteggiamento di fronte alle proprie truppe e non capisce che per molta parte della corte, soprattutto le donne dell’harem e i suoi contendenti filo veneziani. Un Cicala in quella posizione non è digeribile per molti versi; per la Repubblica di Venezia in primis e per gli Asburgo è come il fumo negli occhi. È chiaro che la ricerca di equilibrio tipica dello statista, la conoscenza della situazione sociale del territorio e del governo non gli appartengano e alla fine rinuncia alla posizione e torna a essere il Qapudan Pascià, l’ammiraglio della flotta: Venezia torna a tremare. Siamo nel 1598, è estate e ancora una volta una grande flotta turca si muove da Costantinopoli lasciando il Corno D’Oro e la splendida Galata, abitata dai Genovesi, per spostarsi a occidente. In autunno è a Pellaro, il punto più a sud della costa calabra visibile da Messina, il luogo dove passa il 38° parallelo, là appare questa grande e paurosa flotta.

Messina nel XVI sec

Messina nel XVI sec

A Messina con i fiori nei cannoni

Questa volta anche la flotta imperiale spagnola è in arrivo. Si preannuncia un grande scontro magari preceduto da sbarchi, distruzione, i soliti massacri, violenze, da una parte e dall’altra. Ma dalla flotta all’orizzonte arriva invece uno schiavo liberato a bordo di una galea con insegne pacifiche porta con sé tre lettere, una per il Viceré Maqueda, una per Don Pedro de Leyv, ammiraglio delle galee imperiali di stanza a Messina e una per Lucrezia. Ecco che il filo rosso tra Scipione e Lucrezia.
Racconta Luigi Natoli: “
questa volta Scipione Cicala non era il tremendo corsaro che si accostava a Messina avido di sangue e di bottino: era invece il figliuolo, che, vinto da un prepotente bisogno dell’anima, veniva a cercarvi la sua genitrice, Lucrezia, la cui dolce immagine dopo trent’anni gli tornava assidua alla mente e lo visitava ne’ sogni. Egli questa volta non sarebbe stato crudele verso la sua città, né mai più per l’avvenire avrebbe condotto l’armata contro la Sicilia, se avessero arriso al suo ardente desiderio: riabbracciare finalmente la madre, poi allontanarsi per sempre E, dopo tre giorni di trepidazione, grazie alla prudenza del viceré duca di Macqueda, il corsaro facea paga la brama del santo affetto Aliale, l’isola respirava per lo scampato pericolo

Questa è la lettera alla madre: “son partito… et più non vi ho visto. Desiderìa… prima della morte vederve… S’adesso vi manderanno acciò complisse secondo il gran desiderio che io tengo di vedervi, e che non resti in questo mondo privo della vista vostra. Io vi prometto rimandarvi, sicché se voi m’amte, come io amo a voi, cercarete licentia di venirmi a vedere” È un uomo ormai maturo, ma sempre che vede nella madre, che la sorte avversa gli strappò, l’unico vero e profondo amore.Un corsaro tornato ragazzo quel ragazzo che 37 anni prima partiva per la Spagna con il padre Visconte senza più ritornare.

Le lettere (nelle quali Scipione offriva anche in ostaggio momentaneo il figlio Mahmud) ottengono il consenso politico e militare (con richiesta anche di ritornare cristiano e unirsi all’impero). Ma soprattutto il consenso della mamma per l’incontro tanto atteso da entrambi.
L’incontro è qualcosa di clamoroso, di grandioso e allo stesso tempo d’intimo e commovente. La flotta turca, per una volta amica, si presenta splendida e rivestita di colori e fiori per salutare alla grande la galea che accompagnava Lucrezia, i fratelli e i nipoti di Scipione, verso l’ammiraglio. Un’enorme bordata a salve, spaventevolmente udita a chilometri di distanza ma per una volta gioiosa, è fatta partire da Scipione appena intravede la madre. L’incontro è commovente fino al patetico, fatto di abbracci e baci, lacrime e sorrisi, di riconoscimenti visti gli anni ormai passati, all’inizio quasi stentati ma poi affettuosissimi. Scipione che si sporge dall’ultimo gradino della scala di fuoribordo per abbracciare piangente la madre è solo una piccola immagine del pathos che dura ore e ore.
Sempre Natoli racconta: “
La barca giunse sotto la scala, Sinàn (Scipione – ndr) dalla cima stese le braccia, gridando: Madre! La donna alzò la testa. Sinan impallidì, le sue labbra rimasero stese in avanti, la sua bocca non proferì più alcuna parola; non era, no, la giovane bella e vigorosa che egli aveva lasciato: era una vecchierella col volto rugoso e lacrimoso, coi capelli bianchi come l’argento, la quale, tremando per gli anni e la commozione saliva la scala della galera”.

Fu consumato un immane banchetto, grandioso e ben preparato con ogni bontà che fosse stato possibile presentare (in particolare frutti e dolci e mitiche specialità locali, quelle che da bambino aveva gustato).  Lucrezia e il suo amore hanno vinto e Scipione pure nel suo cuore vince se stesso o meglio fa vincere i suoi sentimenti di amore da anni rinchiusi nel passato. La scena è davvero molto forte e addirittura vissuta con emozione dall’intera città, eccitata dalla presenza della flotta spagnola e di quella turca che per una volta era possibile ammirare insieme senza timore.  Ma come per ogni cosa eccezionale, il tempo fu tiranno. Di fatto ci fu, ben presto, il patetico definitivo commiato: “alla partenza si abbrazzarono e stettiro cossì un bon pezzo per tenerezza, piangendo tutti dui”, annota un cronista del tempo.  Breve parentesi, ben presto riassorbita dal proseguimento della rotta. Fatto sta che comunque molti zecchini furono da Scipione regalati alla mamma e alla famiglia.

Colpo di Stato ?

Ma anche se, com’è giusto che sia, la sua vita con alti e bassi comincia a giungere al termine non si può per nessuna ragione dimenticare ancora un’avventura, forse la più inquieta, strana e affascinante della sua vita.
Pochi mesi dopo dalla sua visita a Messina, Scipione torna davanti alle coste calabresi dopo aver compiuto scorrerie e attacchi nell’Egeo; sosta davanti alle coste ioniche, ma poi come se avesse convenuto un incontro in qualche modo ‘saltato’ se ne torna verso Costantinopoli.
Dietro questo banale avvenimento (rispetto alla sua vita corsara) si cela invece un episodio molto particolare. Qualcuno era in attesa e con lui non si è incontrato. La sua intera flotta aspettava un incontro non riuscito. Sembra un mistero che solo le carte e gli studi hanno poi svelato: Scipione (Sinàn) attendeva dei congiurati. Certo era stanco di anni di vita presso la corte del sultano con tutte le continue pressioni, ansie, ricatti, rischi continui rapporti difficili basati sugli zecchini e non su amicizia o amore; tanto prestigio e ricchezza ma tanta precaria condizione d’inseguimento continuo. Cosa si attendeva Scipione? Il suo defilarsi dal mancato incontro dimostra certo la sua cautela e la sua attenzione a non sbagliare mosse o a percorrere soluzioni poi svanite, ma anche il fatto che un calcolatore come lui avesse almeno iniziato questo strano percorso, indica che era un’ipotesi non superficiale. Forse voleva fare della Calabria un suo feudo personale, forse voleva una sua corte, forse voleva tornare sui suoi passi religiosi tornando al cristianesimo. Non si sa di preciso ma quello che è certo è che Scipione attendeva Tommaso Campanella e i suoi uomini.
È una sorpresa incontrare in questo racconto un filosofo. Campanella, nato da umilissime origini, nella sua vita seppe dimostrare una grandezza umanistica e filosofica da stella di prima grandezza. Se durante questo racconto abbiamo riscoperto la mancanza di tolleranza nel mondo turco e la presenza nel Corano e nella Sharia di prescrizioni durissime, non si può non provare un senso di vergogna per quella parte della gerarchia ecclesiale che tradendo in pieno il messaggio cristiano di tolleranza e libertà di pensiero, perseguitò tra i tanti anche il Campanella. L’inquisizione sottopose Campanella a molti processi (ne collezionò addirittura cinque) con durissime torture (un vergognoso adoperarsi per ottenere testimonianze) e alcune assoluzioni ma soprattutto condanne di cui una a 27 anni di carcere (come Nelson Mandela). Inquisizione, arma anche politica e non solo gerarchica visto che il Campanella proprio come Mandela fu al fine scarcerato per ordine della gerarchia a lungo nemica, da un futuro Papa dopo una vita in prigione. Questo anche perché la condanna era dovuta in realtà più a una rivolta anti spagnola che a un’eresia usata come scusa per ottenerne la condanna.
L’autore della mitica Città del Sole, prima ancora di realizzare l’opera citata si adoperò alla preparazione di una rivolta atta a ottenere in qualche modo la possibilità di creare quella società ideale che auspicava. Il tentativo di organizzare questa Società, Tommaso pensò di organizzarlo nella sua calabrese terra di origine, duramente oppressa dal dominio spagnolo. Il sogno è quello di una “res publica” ideale comunitaria, solidale e al tempo stesso teocratica. Una repubblica dove regnasse l’onesta intellettuale, la libertà di pensiero e fosse applicata una giustizia vera e non “esemplare”. Ma il tentativo, la congiura doveva essere in qualche modo organizzata e sostenuta da una “importante forza” in grado di, un primo tempo, scacciare gli Spagnoli e poi di non opporsi alla realizzazione dello stato ideale. Il Campanella si rivolse ai Turchi anzi a uomo di cultura occidentale, originario di una famiglia genovese (quindi con solida cultura). Si rivolse a Scipione Cicala incontrandone il favore forse per i motivi sopra citati.
Erano questi i congiurati che Scipione attendeva, tra i quali Maurizio Rinaldi che aveva incontrato a Costantinopoli e con cui si era accordato. Rinaldi doveva essere accompagnato dai suoi uomini, ma nessuno arrivò perché la rivolta fu scoperta e stroncata sul nascere dagli spagnoli. Campanella consegnato, processato e condannato. Scipione rientra a Costantinopoli e aiuta comunque i profughi calabresi là rifugiatisi. Continuerà non solo il suo compito di ammiraglio della flotta ma anche i suoi contatti con la famiglia per ottenere per suo fratello Carlo il governatorato (turco) del Ducato di Nasso (senza peraltro riuscirci). Ma non solo, Scipione continua a coltivare contatti tali da far ritenere al Papa Clemente VIII un suo possibile ritorno al cristianesimo e la riconquista cristiana di Costantinopoli.
Non è un’ipotesi è un fatto suffragato da documenti di intelligence dell’epoca. Ciò che resta misterioso è quanto questo progetto conosciuto e fortemente sponsorizzato dal Papa fosse in pratica veramente pensato e condiviso da Scipione, oppure usato tatticamente dal Cicala nei rapporti con l’Occidente. Per Scipione inizia un declino (legato anche al suo invecchiamento) che comunque gli consentirà ancora per anni di avere il comando della flotta e di riuscire ad aiutare la carriera dei suoi figli in particolare Mahmud. Seguendo il comando dell’ennesimo nuovo sultano, servirà l’impero Ottomano ancora una volta.
La sua vita termina in Armenia, dove è in corso una guerra terribile e dove l’esercito che gli viene assegnato è male addestrato, stanco e logorato dal freddo.  Lo ritroviamo arroccato a Diyarbakir dove suo figlio è al momento governatore e dove muore proprio quando il giovane sultano è in procinto di rinnovargli la fiducia e il potere.  La sua morte è improvvisa per la corte di Costantinopoli che si affretta immediatamente ad accaparrarsi parte delle sue immense fortune. Certo i figli (Mahmud e Hussein) non soffriranno la rovina mantenendo un livello economico elevato ma la ricchezza accumulata sarà divisa e dispersa a corte; il suo palazzo assegnato d’ufficio al cognato del sultano.
Ma cosa ancora si trova in giro per il mondo che possa ricordare questa saga dei Cicala? Certamente i palazzi e la loggia dei Cicala a Genova, un paio inseriti nella lista dei Rolli (patrimonio Unesco dell’Umanità). II palazzi Cicala di Messina sono ormai scomparsi a causa del terremoto del 1908 distrusse anche il monumento funebre a Visconte Cicala. Ma alcune case molto tardive costruite dagli eredi Cicala ancora ne portano il nome.
A Istanbul, si trova un intero quartiere che lo ricorda, incastonato tra il Topkapi, Santa Sofia e il Corno d’Oro di fronte al quartiere genovese di Galata (v. immagine in alto accanto al titolo). Qui Scipione aveva fatto erigere il suo mitico “Bagno” o più correttamente “Hammam”. Un Hammam delizioso che nel diciottesimo secolo fu ricostruito da un successivo sultano, ma che porta ancora il nome del più famoso abitante e costruttore. Infatti, Cağaloğlu (storpiatura di Ciğaloğlu) è il nome odierno del quartiere di Istanbul sede di molti giornali e pubblicazioni e quindi “cuore della stampa turca”.

La beffa finale

Il finale dell’avventura e saga dei Cicala, che abbiamo visto, nasconde una storia quasi simpatica. Alcuni anni dopo, si presenta in Occidente un uomo che si fa riconoscere per il figlio di Scipione il citato Mahmud. Viene ospitato in varie corti anche perché afferma di essersi convertito al cristianesimo e che la nuova fede lo aveva indotto a spogliarsi di ogni ricchezza e onore per tornare alle origini religiose della famiglia. A Messina l’accoglienza è solenne sia presso la famiglia (i cugini discendenti) sia da parte delle autorità religiose. Con donazioni e pensioni a vita come esempio supremo di convertito, figlio di Sinàn Qapudan Pascià. Da molti potenti occidentali, Papa compreso ma anche Venezia e Savoia, Granducato di Toscana, Francia e Spagna e pure Baviera verrà onorato e festeggiato.
Ma appena questo ‘figlio di Sinàn,’ si approccia all’Inghilterra, Carlo II lo smaschera: si tratta di un ignoto personaggio della Valacchia che si faceva passare per l’ultimo dei Cicala e che incredibilmente riesce impunito a scomparire cosi misteriosamente com’era apparso.
È l’ultima beffa in qualche modo quasi surreale che fa riemergere quel fascino di Scipione Cicala, personaggio complesso, enigmatico, nato nobile, preso schiavo, favorito del Sultano e promosso fino a Gran Visir.
Una storia, una saga famigliare incredibile ma dimenticata. E oggi riportata alla luce grazie alle ricerche dell’ingegner Bruno Francesco Sacone, che ringraziamo sentitamente.

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* e questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
un po’ prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio

e questa è la memoria
la memoria del Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá