Le trippe a Genova. Cibo dei poveri o cibo da ricchi? Oggi le tripperie a Genova sono quasi scomparse, ma vantano una lunga tradizione, e negli anni ’60 del secolo scorso non era difficile incontrare signore in pelliccia entrare in questi locali – i più noti in Piazza Marsala e in Piazza Tommaseo – per una sosta del dopo teatro. Ma c’è di più nella loro storia. E c’entrano anche gli ‘sbirri’.
Era una fredda serata del 1841. Un giovane sta cenando in una tripperia di via S. Sebastiano. Nascosta dietro la più ‘nobile’ via Roma, la via S. Sebastiano è certo più antica, ed era la strada che congiungeva il Convento di San Domenico con la piazza delle Fontane Marose nel centro cittadino. La via stessa prende il nome dal complesso monastico che si trovava dove ora sono i numeri 5 e 6 di via Roma e fu demolito, come quello di San Domenico, nel 1872 quando in nuovo piano regolatore disegnato dal Barabino, prevedeva la costruzione delle piazza De Ferrari – dove oggi hanno sede la Regione, la Borsa, il Teatro Carlo Felice e l’Accademia Ligustica – e la nuova via Giulia che portava fuori città, a Levante.
Si dice che la chiesa di San Sebastiano fosse stata edificata per ringraziamento al termine la peste del 1430; ma secondo gli storici risale al 1504, e arricchita nei secoli successivi con affreschi dei più noti pittori genovesi, tra cui Domenico Piola, Bernardo Castello, e Giambattista Carlone. La via S. Sebastiano, su cui si affacciavano palazzi nobiliari oggi scomparsi, ha ospitato fino agli anni recenti la sede della Banca di Novara. Oggi, un albergo. Ma a fine ‘800 la via, che fiancheggiava la sottostante via Carlo Felice (oggi via XXV aprile) costruita nel 1825, fu anche ritrovo di artisti e, quindi, osterie.
La trippa del condannato
In una di queste, quella fredda sera del gennaio 1841, il nostro giovane stava cenando, se così si può dire, con un paio di tazze di brodo di trippa. Una cena frugale, cena da poveri. Ed era tutto ciò che quella sera il giovane ‘foresto’ poteva permettersi in tutta la sua tristezza per una serata andata male. Andata male perché al Carlo Felice la sua opera lirica ‘Oberto, conte di San Bonifacio‘ era stata un fiasco.
Quel giovane si chiamava Giuseppe Verdi. Anni dopo, e dopo altre opere ben più fortunate ogni volta che tornava a Genova, anziché cenare a brodo di trippa, faceva colazione nell’elegante pasticceria dei fratelli Klainguti, poco più sotto, in piazza Soziglia. Tanto che i titolari avevano dedicato al musicista la ‘brioche Falstaff’ con ripieno di pasta di nocciola.
Ma la trippa era davvero un cibo da poveri?
Non solo, ma era anche il cibo dei condannati a morte, per la loro ultima cena.
Forse pochi sanno che in genovese la trippa è detta Sbira, ed è un piatto tipico che risale al 1479. Questa è una storia che ci racconta Roberto, ex calciatore e allenatore di squadre giovanili, cuoco e ristoratore a Uscio (o Tuggiu).
Risale a quando dall’Oratorio di Sant’Antonio, detto ‘dei Birri’, uscivano le future guardie carcerarie, che erano soprannominate, come del resto ancor oggi, ‘sbirri‘.
Ma da dove viene questa locuzione? Innanzi tutto gli ‘sbirri’: il termine deriva tardo latino birrus – che era il colore rosso del mantello con cappuccio che le guardie erano solite indossare nel medioevo e nel rinascimento. Da birrus a sbirro e da sbirro a sbira, il brodo di trippa.
Questo perché, nel medioevo e oltre, l’ultimo pasto del condannato a morte consisteva appunto in una scodella di brodo di trippa che poteva contenere anche dei pezzi di trippa, arricchito con pane abbrustolito e formaggio grattugiato. Un pasto lussuoso, se vogliamo, o quanto meno appetitoso, che era consumato anche dalle guardie, gli sbirri appunto.
Qualche etimo
A quanto sembra, la voce in uso oggi, trippa, deriva, attraverso inglese e francese, dalla voce celtica tarp e, dal punto di vista gastronomico, la trippa è diffusa ovunque in tutta Europa. Ogni regione o città ha la sua specialità. Una delle ricette genovesi, a parte il brodo di trippa, è la trippa in umido con fagiolane e patate, con l’aggiunta di pinoli e, in alcune ricette, persino l’uvetta. Ricetta simile – senza pinoli – è la ciorba, che troviamo in Romania e in Bulgaria.
In Italia la trippa è un piatto che si trova ovunque. A titolo di curiosità etimologica, citiamo quella di Milano, la busecca, termine che deriva dal tedesco butze, che significa viscere; da cui buzzo e in dialetto lombardo busa, la pancia.
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