MetaÃlice incontra uno scrittore “per caso”. Non ha mai pubblicato, ma la freschezza di quanto racconta e scrive ci ha incuriositi e vogliamo così proporre i suoi racconti al nostro pubblico.
Marco Picasso (MAÃ) – Luca Mascherpa, tu non sei uno scrittore, né da quel che sappiamo, ti consideri tale. Eppure i racconti che hai scritto che abbiamo letto volentieri, ci hanno colpito in positivo. Diremo dopo perché. Intanto raccontaci qualcosa sulle tue origini e la tua vita lavorativa.
L M ‒ Amo definirmi scacchista e viaggiatore. Posso scrivere storie autobiografiche senza considerarmi scrittore, come imbiancare la mia cucina senza sentirmi necessariamente un pittore. Mi piace leggere letteratura di viaggio, saggistica e romanzi noir. L’impulso di scrivere è partito, in epoca di covid, quasi per una necessità terapeutica di ricordare alcune esperienze per me significative. Sono realmente gratificato, felice e, al tempo stesso, alquanto sorpreso dal tuo apprezzamento. Dopo gli studi all’Istituto tecnico nautico di Camogli e il servizio militare di leva in Marina Militare, ho iniziato a navigare sulle navi mercantili per poi, in seguito a alcune disavventure professionali e sentimentali, dirottare verso una più tranquilla vita lavorativa terrestre. Il Dottor Diena, socio fondatore del club di scacchi, è stato per me un personaggio chiave di fondamentale importanza nella mia vita: mi ha assunto nella sua ditta di medicinali e successivamente nella sua impresa informatica specializzata nel lavoro di gestione farmaceutica.
MAÃ ‒ Hai seguito la tradizione camoglina: Istituto Nautico, primi viaggi in mare, da cui sono nati due interessanti racconti intitolati alle imbarcazioni su cui eri secondo ufficiale, la Capo Rosso e la Capo Verde. Ma poi, anche tanti viaggi per il mondo. Cosa ti hanno dato e lasciato?
L M ‒Sono stati momenti indimenticabili carichi di significato perché quando uno viaggia sente che gli si apre la vita. Spesso, dopo le mie incursioni per il mondo zaino in spalla, sono ritornato con maggiore consapevolezza, forse migliorato, sicuramente cambiato e con opinioni e percezioni differenti rispetto alla partenza.
MAÃ ‒ Un racconto recente, il primo che ci hai mandato, può sembrare un semplice resoconto di un viaggio di piacere in alcuni Paesi dell’Africa occidentale: Senegal e Gambia. Ma, a differenza, dei viaggi esotici oggi di moda, questo non essendo stato un viaggio organizzato, e quindi “impacchettato” ti ha dato modo di avere contatti diretti con la popolazione, in particolare con i giovani. E sembra che tu ne abbia avuta una buona impressione. Viene da pensare che quanto conosciamo o crediamo di conoscere degli africani, e anche degli islamici, sia un po’ artefatto. Qual è la tua opinione?
L M ‒La narrativa corrente è certamente artefatta da un sistema comunicativo propagandistico criminale funzionale a un sistema di potere predatorio atto a concentrare le risorse nelle mani di poche persone. Assistiamo a una manipolazione sistematica delle masse che, promuovendo l’ignoranza, alimenta ansie, paure e razzismo. Recentemente ho avuto il piacere di leggere il saggio “C’è del marcio in Occidente” scritto dal professor Odifreddi: un logico matematico di notevolissima cultura umanistica. La lettura del libro mi ha trasmesso un grande conforto perché l’autorevole opinione del professor Odifreddi , argomentata da fatti storici oggettivi e informazioni statistiche è, a tutti gli effetti, analoga alla mia attuale percezione del mondo.
MAÃ ‒ Analogamente hai una profonda conoscenza dell’America Latina. Differenze e analogie?
L M ‒ Esistono luoghi geografici dove mi sento totalmente comodo. La mia conoscenza dell’America Latina è indubbiamente superiore a altri continenti visitati. Ciò è stato favorito da conoscenze idiomatiche linguistiche apprese in viaggio, sulla strada, incontrando e comunicando con persone comuni alcune delle quali, in maniera del tutto inconsapevole, si sono rivelate per me dei fantastici insegnanti. Da autodidatta ho appreso il castigliano inizialmente viaggiando in Spagna e successivamente, percorrendo l’America Latina, ho avuto modo di assimilare tante curiose varianti idiomatiche. Successivamente ho deciso di testare la mia preparazione da autodidatta sottoponendomi a uno specifico esame linguistico certificato dai professori dell’istituto Cervantes denominato “D.E.L.E Superior” (Diploma Español Lengua Extranjera nivel superior). Un esame lungo complessivamente più di 4 ore, difficoltoso e pieno di insidie con il quale vengono testate tutte le abilità di conoscenza linguistica: comprensione di lettura, comprensione auditiva, grammatica e scrittura e infine conversazione. Con mia enorme soddisfazione sono riuscito a ottenere la certificazione.
MAÃ ‒ Sono d’accordo sull’importanza che dai alla conoscenza linguistica, cosa peraltro trascurata in Italia.
L M ‒ La lingua è lo strumento che esprime la filosofia dei popoli rendendone efficace il modo di concepire la vita, l’energia e le vibrazioni. Nikola Tesla sosteneva: “Se si vuole trovare i segreti dell’Universo, bisogna pensare in termini di energia, frequenza e vibrazioni.” Penso che ogni popolo abbia energia e vibrazioni che trovano fondamentalmente origine non tanto dai propri meriti collettivi quanto essenzialmente dalla propria storia. Con la conoscenza linguistica puoi cercare di sintonizzarti e talvolta avere addirittura la sensazione di percepire quella energia e intercettare quelle vibrazioni.
MAÃ ‒ Passiamo alla tua voglia di scrivere. Hai scritto e mi ha inviato i tuoi racconti solo dopo molta insistenza da parte mia. Quasi fossero un segreto. Perché scrivi (e tra parentesi devo dire anche bene, meglio di tanti che pubblicano i propri racconti)?
L M ‒ A questo punto della vita ho sentito l’impulso di scrivere perché ciò favorisce il ricordo delle esperienze del passato: svolge un ruolo terapeutico che mi consente di ricostruire e comprendere meglio il mio vissuto. A volte, in fase di scrittura, emergono inaspettatamente episodi che avevo dimenticato, ma che erano evidentemente come sedimentati nel mio inconscio.
MAÃ ‒ Hai mai pensato di pubblicare, pur consapevole quanto sia complesso, costoso e a volte inutile?
L M ‒ No non l’ho mai pensato. Onestamente non credo che il mio esercizio abbia un qualche interesse letterario. Questo esercizio risponde essenzialmente a una pulsione interiore che mi aiuta a comprendere meglio il mio percorso. Indubbiamente mi sento molto gratificato dal tuo apprezzamento e mi fa piacere condividere le mie storie con persone care come i familiari e gli amici, e in particolare Alicia, che mi supporta (e sopporta) con instancabile comprensione e affetto. Ultimamente ho avuto anche la piacevole recensione positiva di mio padre e dei miei nipoti. Penso che in un mondo sempre più governato dalla funzionalità della tecnica, dalla ‘cultura’ dell’efficienza e dell’utile, l’esercizio di scrivere sia totalmente ‘inutile’, come la bellezza.
Grazie Luca. Propongo qui un breve brano tratto da:
La Motonave Caporosso
«Caro Mascherpa! Io desidero per lei una vita più rilassata!» con queste testuali parole, scolpite nella mia memoria, esordì il comandante d’armamento della Navale Spartivento, conosciuto popolarmente con il sopranome “vasellina”, per la sua rinomata capacità di far digerire al personale marittimo le sistemazioni di imbarco meno gradite. Nell’estate del 1986, nel mese di settembre, fui destinato a Brindisi per imbarcare sulla motonave Caporosso: un ex peschereccio atlantico adattato a nave cisterna di circa mille tonnellate di stazza lorda. Ricordo che quando giunsi alla capitaneria di Brindisi, per espletare le normali pratiche d’imbarco, notai alcuni motoscafi sfrecciare a alta velocità e, quando domandai spiegazioni a un finanziere piuttosto in sovrappeso, costui, alquanto sorpreso dalla mia domanda, mi rispose imperturbabile che si trattava di motoscafi impegnanti nell’attività di contrabbando di sigarette.
Fu alla capitaneria di Brindisi che incontrai il comandante della nave. Si presentò in capitaneria indossando una sgargiante e ridicola camicia hawaiana, piuttosto in contrasto con la figura istituzionale del suo ruolo: era un anziano signore sessantenne, con il viso rugoso, un’andatura con il capo curiosamente inclinato su un lato, l’apparenza instabile e un marcato accento romanesco.
Espletate le normali pratiche d’imbarco, ci imbarcammo insieme su una lancia per raggiungere la nave alla fonda nella rada.
Avevo da poco compiuto ventiquattro anni e quello era il mio primo imbarco in qualità di secondo ufficiale di coperta.
L’impatto con la motonave Caporosso fu a dir poco traumatico: la coperta era costituita da due grandi serbatoi ovali, una sala compressori, una giungla di tubi e di valvole colorate che trasudavano un penetrante odore di ammoniaca. La cabina era piuttosto spartana: costituita da un letto, una piccola scrivania adibita a ufficio e un bagno con doccia.
Provenendo dalle eleganti navi portacontenitori di costruzione norvegese, ero piuttosto disorientato: il mio primo impulso fu quello di sbarcare immediatamente e scappare via, il più lontano possibile, da quell’infernale girone dantesco.
Nella foto in alto Luca Mascherpa, primo a destra, in uno storico incontro di scacchi che portò alla vittoria del suo circolo al campionato regionale.
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