Come sappiano è tradizione delle famiglie genovesi preparare in casa il vero pandolce genovese. Le ricette sono diverse a seconda della zona, della famiglia e dei gusti, ma un elemento irrinunciabile è l’acqua di fior d’arancio.   Ma la cosa essenziale, al momento dell’assaggio a fine pranzo – mi raccomando fette sottili non quei fettoni del panettoni milanesi – tradizione vuole che si facciamo i complimenti alla cuoca, ma anche gli indispensabili commenti che devono necessariamente adeguarsi alla tradizione del mugugno e del maniman.

Non so se era abitudine solo della mia famiglia o se questo commento era d’obbligo ovunque.

Infatti, dopo tutte le considerazioni sugli ingredienti, il tempo di lievitazione, la temperatura del forno, la quantità di burro, l’altezza del pandolce e così via, oltre all’immancabile rametto di alloro piantato sulla vetta, c’era se il nonno o il vecchio zio scapolo che interveniva: “Eh, o l’è bun… peccoû che…” E qui allora ognuno doveva trovare il piccolo difetto. La forma non precisamente tonda; l’acqua di fior d’arancio era troppa o troppo poca; i pinoli non erano quelli del pino giusto (“ma donde ti l’ae piggiè?”); sì ma la scorza d’arancio…; o l’è staeto in forno çinque minuti de ciü. E allora ogni Natale da allora si dice: “T’è mangiou o pandoçe do peccou?”

Buon pranzo.