Con l’accordo siglato il 16 dicembre 2021 Giflex, UCIMA e Unione Italiana Food danno vita a un protocollo, unico nel suo genere, per offrire alle aziende della filiera alimentare italiana soluzioni che rendano l’imballaggio flessibile più riciclabile e sostenibile. Obiettivo arrivare a recuperare e riciclare circa 50.000 tonnellate di materie plastiche da destinare a una seconda vita, partendo da un recupero e riciclo del 50% di imballaggi flessibili raccolti. Ci permettiamo di sollevare qualche dubbio per l’esclusione e priori del riutilizzo per la termovalorizzazione come commentiamo in fondo.

I tavoli tecnici previsti dal protocollo studieranno soluzioni tecnologiche per rendere possibile l’utilizzo di nuovi materiali e migliorare i sistemi automatici di selezione e pretrattamento dei rifiuti di imballaggi in plastica ed evitare che vengano inviati in discarica o all’incenerimento.

Imballaggi flessibili

Ogni anno, in Italia, vanno sul mercato circa 180.000 tonnellate di imballaggi flessibili, di cui l’80% destinati a protezione, conservazione, trasporto e commercializzazione del 50% dei prodotti alimentari.

In termini di impatto ecologico, il protocollo sostiene che il 70% degli imballaggi flessibili sia riciclabile, sebbene l’effettivo invio al riciclo sia condizionato da alcuni limiti legislativi e tecnologici (legati alla composizione stessa degli imballaggi flessibili, per lo più multistrato e/o multimateriale).
Il tema dell’effettivo avvio a riciclo di questo materiale è di particolare rilievo per la nostra economia, perché l’Italia è tra i leader europei nella produzione di macchinari per la realizzazione di imballaggi flessibili e per il packaging (mercato che fattura oltre 11 miliardi di euro). Proprio per non disperdere una risorsa così importante e dare un contributo concreto all’ambiente, il Vicepresidente di Unione Italiana Food (Paolo Barilla), il Presidente di Giflex (Alberto Palaveri) e il Vicepresidente di UCIMA (Riccardo Cavanna) hanno firmato un Protocollo d’Intesa che sancisce una collaborazione unica nel suo genere fra le tre associazioni.

Con la firma di questo protocollo, le Associazioni si impegnano entro gennaio 2022 a organizzare un primo tavolo di lavoro tecnico, con membri di altissimo profilo provenienti dalla filiera, per analizzare i problemi che ostacolano la sostenibilità e riciclabilità degli imballaggi flessibili ed elaborare possibili soluzioni. Al tavolo verranno invitati anche i funzionari del Ministero dello Sviluppo Economico (Mise), del Ministero della Transizione Ecologica (Mite), del Consorzio Nazionale Imballaggi (CONAI) e del Consorzio Nazionale per la Raccolta, il Riciclo e il Recupero degli imballaggi in Plastica (Corepla).

Le sinergie saranno poi alla base della costituzione di una serie di gruppi di lavoro che si occuperanno di verificare quali interventi tecnologici possano essere operati sulle linee di produzione di packaging e su quelle confezionatrici per rendere possibile l’utilizzo di nuovi materiali e di studiare soluzioni tecnologiche per migliorare i sistemi automatici di selezione e pretrattamento dei rifiuti di imballaggi in plastica ed evitare che vengano inviati in discarica o all’incenerimento. Ipotizzando, come target di partenza, un recupero e riciclo del 50% di imballaggi flessibili raccolti, un primo obiettivo sarà quello di recuperare circa 50.000 tonnellate di materie plastiche da destinare ad una seconda vita.

Gli ostacoli

L’effettivo avvio a riciclo degli imballaggi flessibili, anche alla luce dell’ampio utilizzo che se ne fa, rappresenta una sfida che impegna tutti gli attori in campo e in particolare tre comparti che, nel complesso, sviluppano un fatturato di oltre 50 miliardi di euro: dai produttori di macchinari per la realizzazione di questo imballaggio, alle aziende produttrici di imballaggi flessibili, fino al settore alimentare che ne è uno dei principali utilizzatori.

Sebbene il 70% degli imballaggi flessibili sia riciclabile, alcuni ostacoli tecnici – comuni anche ad altri materiali plastici – ne impediscono l’effettivo avvio a riciclo.
Le tecnologie che selezionano i diversi imballaggi plastici, ad esempio, presentano limiti nel riconoscimento dei materiali di cui sono composti, sia per le dimensioni degli imballi stessi che per alcune caratteristiche, come la metallizzazione dei film.
Questo fa sì che anche gli imballi 100% riciclabili non vengano di fatto riciclati: in Italia oltre il 50% dei materiali plastici (inclusi gli imballaggi flessibili) viene raccolto come Rifiuti Plastici Misti, ma non tutto può essere recuperato e di conseguenza viene inviato in discarica o all’incenerimento.
Affinché gli imballaggi flessibili possano passare da “riciclabili” a “riciclati” sarà necessario risolvere alcuni aspetti: in primo luogo la ricerca di mercati di sbocco alternativi all’alimentare, visto che la legge impedisce di usare plastica riciclata negli imballaggi destinati agli alimenti.

C’è poi un tema di gestione dell’imballaggio flessibile post-consumo da parte dei Comuni che, nonostante la riciclabilità, chiedono di conferire i film plastici nella frazione indifferenziata. Infine, c’è la grande questione delle tecnologie e della ricerca: trovare materiali sostitutivi o riconvertire strumenti e macchinari sono operazioni gravose dal punto di vista economico e soprattutto non sempre sono strade tecnicamente percorribili.
Secondo il Piano per l’Economia Circolare dell’Unione Europea, entro il 2025 il 50% degli imballaggi plastici dovrà essere riciclabile, mentre entro il 2030 tutti gli imballaggi sul mercato dell’UE dovranno essere riutilizzabili o riciclabili in modo economicamente sostenibile. L’accordo tra Unione Italiana Food, Giflex e UCIMA si profila, dunque, come un tentativo unico nel suo genere.
Lo scopo è mettere a sistema competenze e conoscenze per il raggiungimento degli obiettivi globali ed europei di riduzione delle emissioni e diffondere soluzioni di economia circolare capaci di garantire il consolidamento di un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente.

Commento

Quello che ci sorprende è la totale assenza di presa in considerazione della termovalorizzazione della plastica (PVC escluso) per produrre energia risparmiando sui costi di recupero e di selezione della plastica dalla raccolta differenziata. Come dimostrato nell’articolo-intervista “In difesa della plastica purché ci sia competenza” cui rimandiamo questa soluzione avrebbe il vantaggio di produrre energia ‘pulita’ quanto meno al pari con l’energia da combustibili fossili, e a basso costo.
Gli ostacoli al recupero e riciclo delle materie plastiche indicati sopra dalle associazioni di filiera sono abbastanza evidenti. A questi va aggiunta la raccolta disordinata nei cassonetti, che mettono insieme ogni tipologia di materia plastica, dal polietilene e polipropilene del packaging alimentare, al polistirolo e al PVC, cui molti Comuni aggiungono le lattine.
Maggiore ordine, precisione e informazione corretta sarebbero comunque oltremodo auspicabili e farebbero risparmiare. Ma allora c’è da chiedersi: chi vuole tenere alti questi costi? E chi frena la termo valorizzazione? Non certo Giflex che è penalizzata dalla Plastic Tax: il percorso di recupero da casa alla riciclabilità totale dell’imballo è infatti talmente lungo e comporta tali costi, cui si aggiungono i proventi della Plastic Tax, che potrebbe destare appetiti a qualcuno. La tesi della termovalorizzazione accorcia dell’80% il percorso di recupero, quindi il controllo sui costi reali sarebbe facilitato. I materiali composti come il frequente accoppiato carta-plastica, che ben pochi consumatori separano prima della loro eliminazione, non costituirebbero un problema.
Per questi sani principi chi mai potrebbe politicamente azzardarsi di andare a sindacare circa l’ottimizzazione dei processi in relazione ai costi energetici impiegati per la filiera del riciclo?