Ripescando un nostro scritto, inedito, di una quindicina di anno fa, vogliamo rendere omaggio all’artista mastro cartaio Pino Guzzonato per i suoi 80 anni, compiuti lo scorso mese di ottobre.  Pino Guzzonato, è noto per le suo opere in e con la carta, che lui stesso produce nel suo atelier, in una valle poco nota e, soprattutto oggi, poco frequentata ai bordi di un torrente che gli fornisce una delle materie prime per la sua carta. Le altre le sceglie di volta in volta. Dai resti vegetali dei mercati ortofrutticoli, a qualunque tessuto non contenga plastica.

E fa prendere iscorza d’uno albore c’ha nome gelso ed è l’albore le cui foglie mangiano li vermini che fanno la seta.
E colgono la buccia sottile ch’è tra la buccia grossa e l’albore, o vogli tu legno dentro, e di quella buccia fa fare carte, come di bambagia, e sono tutte nere.

Marco Polo

Mentre Cristoforo Colombo attraversava l’Oceano ignoto “buscando el levante para el poniente”, da questa parte del vecchio mondo, in una sperduta e poco frequentata valle vicentina, sopra Schio, la valle del Tretto, giungeva dalle Alpi grigionesi, un certo frate, detto Fra Grison. Costui, forse mago, forse alchimista, sapeva che in questa valle si trovavano argento e altri metalli.
L’alchimia al Tretto è ancora di casa. Non piú argento, ma carta; non piú miniere e gallerie, ma l’arte alchemica di Pino Guzzonato.

Nella Valle del Tretto si tramanda una storia di miniere e folletti, che occorre conoscere, per entrare nel vivo del lavoro, dell’arte e del temperamento stesso di Pino.
È una tradizione che risale al XVI secolo, quando appunto, al seguito di Fra Grison, vi giunsero i ‘canopi’, minatori svizzeri e bavaresi, che iniziarono a scavare gallerie alla ricerca dell’argento e di altri metalli, dall’oro al ferro. Questa cronaca ci è stata tramandata dal notaio Giuseppe Gorlin, residente a Venezia, ma originario del luogo.

Oggi sarebbe del tutto dimenticata, se non fosse stata riesumata nel 1984 dal poeta scomparso Fernando Bandini che, per i tipi di Neri Pozza di Vicenza, pubblicò nella piccola collana-strenne di Errepidueveneto un raro opuscolo tirato in 200 copie, basato su una pubblicazione del 1876 che si rifaceva, a sua volta, ai manoscritti del Gorlin.

Parla, questa tradizione, di un “certo frate tedesco, vestito di sacco, molto povero, unto bisunto, con le scarpe stracciate, colle calcagna e cime delle piedi per terra, di statura assai grande, il nome del quale dirò poi.”
Perché questo frate tedesco venne al Tretto? Pare che fosse a conoscenza di un altro prete, certo Tomaso da Peternis, che nel 1492 con un suo famiglio dal Tretto “andava a cena a Trento in un’ora, ed in un’ora ritornava a casa, cavalcando ognuno un cavallo bianco.” Considerando che oggi con i mezzi e vie di comunicazione moderni, congestione del traffico a parte, dal Tretto a Trento non si può impiegare meno di due ore, c’era del magico. E la magia, si sa, all’epoca attirava.

Questo frate era senza dubbio anche lui un mago. Il nome con cui lo conosciamo gli fu dato, pare, dalla sua provenienza dalle Alpi Retiche; ma aveva, o gli venivano attribuiti altri nomi mentre il suo nome vero “alcuni credono voglia dire Mago delle montagne o degli ori, ovvero delle miniere, cioè l’uomo che vede per dentro le montagne.” Né nascondeva il fatto “d’esser stato nell’arte della negromanzia istruito.”
Fra Grison insegnò a tale Pietro Zaffonato (ascendente di Guzzonato?) a trovare una vena argentifera. Costui, dopo aver tanto scavato e nulla trovato, abbandonò l’impresa, proprio quando la vena stava per essere scoperta, cosa che fece in seguito un altro contadino piú fiducioso. Da allora le miniere furono coltivate per secoli.
Ma come si sa, in tutte le storie di miniere c’è sempre uno spiritello, cosí come nelle miniere di ferro in Svezia c’era il dispettoso folletto Nicki, che fece scoprire il nikel, senza il quale l’acciaio inossidabile non sarebbe tale.
Lo spiritello del Tretto era chiamato salbanello ed era, come si conviene, molto dispettoso, nascondendo gli attrezzi dei minatori. Per renderlo innocuo dovevano fargli dei regali, e fu in particolare il giorno un cui gli “fecero allora fare un saietto di panno rosso e lo portarono sopra la buca, e la sera serrarono benissimo la porta, sigillandola conforme il passato. La mattina entrati non trovarono il saietto, ma non diede piú fastidio immaginabile di sorte alcuna il salbanello.”

E oggi, il salbanello, c’è ancora? Cosa fa? Come si comporta?
Pino Guzzonato giura di sí. A volte è il fringuello che lo sveglia di prima mattina, a volte gli mette in disordine pennelli e colori, ma è benevolo. Come benevolo è Pino, il quale, se non nella corporatura robusta, almeno nello spirito potrebbe essere scambiato per un hobbit.

Fernando Bandini, in una lettera a Guzzonato, pubblicata nel catalogo Worte und Staub (parole e polvere) a lui dedicato in occasione della mostra alla Bauhaus Universität Weimar, ci ricordava che “nel Tretto ci sono alberi sulla superficie della terra, ma anche un universo segreto e antico sottoterra: gallerie e gallerie delle miniere d’argento che i canopi venuti soprattutto dal nord, vi hanno scavato nei secoli passati”, e come, nella notte di San Giovanni, “fiorisse un’erba chiamata “lunaria” che se brucata dal gregge trasformava in oro i denti delle pecore.

Bandini, che conosceva bene Guzzonato, i folletti e le campagne vicentine, terminava la sua lettera, suggerendo di deporre un saietto “sulla soglia di casa tua e al mattino non lo troverai piú. Il salbanello ne sarà felice e per dimostrarti la sua gratitudine, verrà di notte a metterti in disordine colori, pennelli e matite. Verserà sulla tavola il vino che hai avanzato la sera prima o lo ruberà per berselo in pace in qualche luogo nascosto.”
Un fatto è certo, come concludeva Bandini “per scrivere poesie in questo nostro mondo, bisogna ancora credere ai folletti e alle fate.”

La carta di Guzzonato

Bisogna dire che Pino Guzzonato è uomo che attrae, nel senso che c’è sempre qualcosa da scoprire in lui; e una volta che lo hai scoperto, ti mette la voglia di farlo sapere agli altri. Sarà opera del salbanello. Cosí, dopo averlo conosciuto attraverso le sue opere, e poi nel suo sito magico di Acquasaliente, dopo aver con lui a lungo chiacchierato, senti la necessità di riportare sulla carta il suo pensiero, il suo modo di essere.
In fondo non è che una legittima trasposizione dalla carta alla carta: lui la carta la crea e la modella; a noi non resta che utilizzarla per testimoniare ciò che lui ci trasmette con la sua arte e la sua filosofia, perché di filosofia appunta si tratta quando si cerca di cogliere il filo conduttore di lavori in cui la carta (almeno per la parte che ci interessa qui) ne costituisce l’essenza.

Ma cos’è la carta? Prendiamo a prestito uno dei tanti scritti dedicati a Pino.
Luigi Meneghelli gli dedica questa storia etimologica.
Carta è sacca profondissima d’etimi: carta, charta (lat), kertes (gr). Con nel corpo la spina della radice Ker (ind) e dunque: caro, carne… Ma ker è anche kéiro, taglio, talea. „Taglio d’occhio“, fisionomia dei caratteri da stampa; e ancora kar (ker) karakter impronta, incisione. Carta è perciò termine tautologico: non rimanda, non serve alla scrittura: è, esso stesso, scrittura, origine celata del segno. E cosí è, a tutt’oggi: cartone, cartoon: sempre disegno, sempre taglio, sempre ferita (del racconto). Spazio dell’annuncio, dell’attesa, della scrittura a venire. All’inizio come alla fine: kar, sker, scrivere.

Una analisi etimologica, che forse trascende nella fervida fantasia dell’autore, ma che coglie appieno tutto il modo di essere di Guzzonato. Lui inventa la carta, ne sperimenta la produzione con ogni vegetale che abbia delle fibre. Linters di cotone, pura cellulosa, juta, canapa, vecchi stracci e vecchi jeans; paglia e fieno, asparagi e carciofi; vecchi libri da cui oltre alla fibra ricava le lettere ottenendo una carta che già porta impressa una stampa, quasi un dna che conserva la memoria delle sue origini. Per le sue veroniche su legno, lo riscalda, quasi a voler trarne la linfa, l’anima.

Questa carta è poi la sua materia prima seconda con la quale costruisce le sue opere. Altri libri, stampati uno per volta; veroniche che modellano oggetti tridimensionali, che diventano, a loro volta, matrici. E queste veroniche possono essere di alberi, di porte, di manufatti.

Le “sudate carte” di Guzzonato, come le definisce Umberto Eco, che invita a curarle con amore nascono dalle acque del Tretto, da questa magica Acquasaliente, che già il nome ha qualcosa di magico (come può un’acqua essere saliente se non per magia?). Queste acque fresche e pure che scendono dalle montagne sono alla base dell’impasto che Pino prepara con cura e sapienza.

Tutta l’opera di Pino Guzzonato sembra voler rispecchiare il Tretto. Dal Tretto certo trae ispirazione, ma è una simbiosi: credo che uno non potrebbe esistere senza l’altro.

Il Tretto

E allora cos’è questo Tretto? Quali i suoi contorni magici?
Forse si può trovare un legame, certo geografico e topografico, con il Monte Summano, che dalla testa di valle è raggiungibile per cresta. Per chi non conosce Schio, va detto che il Monte Summano qui è ‘il monte’ per antonomasia, che domina la pianura. E con la sua forma che ricorda un vulcano, ha sempre suscitato rispetto e venerazione.
Già acropoli preromana, ospitò un tempio che pare fosse in origine dedicato al dio Plutone. Di questo monte ‘per eccellenza magico e sacro’ si è occupato Enio Sartori, storico, studioso di tradizioni locali, che ha pubblicato un saggio che ripercorre la storia di Sant’Orso. Da questo prende il nome il paese allo sbocco della valle del Tretto prima della piana di Schio e qui una targa ricorda la proto-tipografia fondata da Leonardo Acarte da Basilea nel 1474. Questo Santo, si accollò il compito, quale penitenza di un delitto, di strappare il monte ai culti pagani ed evangelizzare le genti. Oggi, il monte suscita ancora il fascino antico ed è oggetto di visite rituali da parte dei neopagani della New Age.

Questa valle che un tempo dava argento e ferro ‒ non a caso si sono trovate tracce di presenza etrusca ‒ , in tempi piú recenti ha fornito caolino della migliore qualità. Si possono ancora osservare gli essiccatoi, strutture in legno dove i ‘pani’ si appendevano ad asciugare, esattamente come si faceva con la carta negli ‘spanditoi’. Oggi di caolino è rimasta una sola miniera, che fornisce ottima materia prima per le ceramiche di Sassuolo.

Anche il ferro non c‘è piú, o quanto meno, non la sua estrazione non è piú produttiva. Ma qui nell’alta valle, nelle frazione dei ‘Tre Colonnelli’ – San Rocco, San Ulderico, Santa Caterina – c’è ancora chi ricorda come il ferro era utilizzato dagli abitanti per costruire asce e coltelli.

Pino Guzzonato riesce a farci incontrare Giovanni, memoria storica del luogo.

Giovanni ha piú di 85 anni (siamo nel 2005), la parlantina sciolta, la tipica erre gutturale tedesca che caratterizza il dialetto locale; e una memoria di ferro, temperata e affilata come i coltelli che ha costruito per anni. Il ferro si trovava nella Valle dell’Orco, nell’alto Tretto. La lavorazione richiedeva esperienza e talento; e molte giornate di lavoro. Per un paio d’ore ci descrive tutte le fasi di fabbricazione, dalla battitura del ferro, alla sua paziente opera di affilatura per dare a ogni lama la forma necessaria per le necessità del luogo. Nascevano cosí coltelli a piú lame, con manici di corno di bue che venivano lavorati facendoli ammorbidire sulla carbonella per poi bloccarne la forma nell’acqua. Le lame avevano dimensioni variabili da 12 fino a 25 cm, con le forme piú svariate, dalla larga lama da pastore a quelle, in genere erano tre, a punta per il salasso alle mucche. Un bravo artigiano era in grado di produrre anche 12 coltelli in una giornata. L’ultima operazione ci sorprende: la lucidatura della lama, per la quale si usava una mola di legno di pioppo, ottimale per la lunghezza delle fibre, con olio.

Neanche a dire che la vita qui al Tretto è cambiata radicalmente. Oggi pochi sono rimasti; non ci sono piú gli oltre mille capi di bestiame; se è rimasta una sola miniera di caolino, poco piú sono gli allevatori di capre e produttori dei formaggi tipici della tradizione montana.

La stessa segheria, o falegnameria, quella che Pino Guzzonato rilevò nel 1989 quando fu dismessa, e che oggi è il suo atelier e accogliente rifugio per i tanti ospiti che qui vengono, quasi in pellegrinaggio, fu l’ultima attività industriale della valle. Qui all’inizio del ventesimo secolo un quarantina di operai fabbricavano navette per telai. Oggi è un ricordo dei tempi d’oro dell’industria tessile vicentina. Dalle navette si era passati a fabbricare astucci in legno per la scuole; poi mollette per distendere. Tutti ricordi d’altri tempi, che le macromolecole hanno inesorabilmente cancellato, almeno fino a quando il petrolio sarà abbondante.

Acquasaliente

Acquasaliente può essere identificata con la casa di Pino Guzzonato. Anzi, piú strettamente con quel breve tratto di torrente, su cui si affaccia la terrazza sulla quale è sempre presente una tinozza per fabbricare la carta. Vi domina una ricca vegetazione, ed è abitata dalle creature del bosco: fringuelli, poiane, cinciallegre, le vedi svolazzare tra i rami; gli scoiattoli e i daini sono piú timidi e li vedi raramente. I ghiri li senti solo la notte e solo le ottime finestre a doppi vetri evitano che vadano a svuotare la dispensa. Le trote, giù nelle fresche acque del torrente, non le vedi , ma le immagini facilmente. Elfi, folletti e gnomi non si fanno vedere, ma certamente ci sono, nascosti in qualche luogo, forse nei ‘busi’, gli antichi pozzi metalliferi.

E poi gli alberi. Questi hanno sempre avuto un’importanza primaria nella valle. Le decisioni si prendevano sotto al melo: qui i vecchi della comunità si riunivano e discutevano e da questa assemblea si stabilivano le regole, che dal luogo prendevano il nome di ‘legge del Pomaro’

In Acquasaliente, c’è un albero cui Guzzonato è particolarmente affezionato; da quando lo ha liberato dall’edera che lo soffocava si erge in tutta la sua imponenza un ontano, onàro nel dialetto locale.

Un nome, questo, che ricorre nella regione e si ricollega ai miti dell’ontano, albero delle paludi e di bosco sacro. Onara è una località presso Cittadella, dove nacque il famigerato Ezzelino da Romano (o Ezzelino da Onàro?)e là era il bosco sacro di ontani. Ma in tedesco ontano si dice Erlen e nel dialetto prussiano Eller, che corrisponde al danese eller, che poi sono gli elfi. Erlkönig è il re degli elfi nella ballata di Goethe. E allora il cerchio si chiude. Gli elfi di Acquasaliente li ritroviamo nell’ontano che Pino ha salvato dall’edera, pianta dionisiaca che soffoca e porta all’estinzione.

L’ontano, albero prediletto di Guzzonato, ricorre nella mitologia antica, la greca, la romana e la celtica. Era l’albero consacrato al Cronos dei Greci, al Saturno dei Romani. Fearn, in lingua celtica, era l’ontano che Irlandesi e Galli consacravano a Bran.
Nel calendario degli alberi della mitologia celtica, l’ontano è l’albero che identifica il mese che va dal 18 marzo al 14 aprile che comprende l’equinozio di primavera, e che rientra nel segno zodiacale dell’Ariete, segno di fuoco. Albero associato al fuoco è l’ontano, perché cattivo combustibile era usato per fare una eccellente carbonella. Ma anche pali come quelli su cui poggia il ponte di Rialto a Venezia.

Anche i sassi del torrente hanno un fascino proprio, perché come fa notare Guzzonato, ogni fiume, ogni corso d’acqua dà ai sassi una forma particolare. Basta dunque osservare la natura, utilizzarne le forme e i contenuti per dar vita a una forma artistica. Questa è, nell’essenza, l’arte di Guzzonato.Guzzonato 80

Auguri Pino.