In questa intervista Giacomo Comincini ci spiega Arcadia una nuova rivista di cultura che abbraccia linguistica, identità, politica e storia culturale.

Non è facile, questa volta, preparare due righe di presentazione di Giacomo Comincini che, nonostante la giovane età (nasce poco prima del 2000) ha già un curriculum culturale di tutto rispetto. Laureato in scienze politiche all’Università di Pavia e in scienze sociali e studi asiatici allo IUSS, con tesi rispettivamente sul diritto europeo e teoria politica del Giappone dove ha trascorso sei mesi, fondando poi e la Associazione di Studi Giapponesi ”Tadaima!”. Alunno del Collegio Ghislieri, è dottorando in storia asiatica a Pavia e conoscitore della Catalogna contemporanea.
Tra gli altri impegni culturali è vicepresidente del Centro Italiano di Interliguistica (IIC) e membro del suo comitato scientifico.

MPA ‒ Partiamo da qui. Cos’è l’Interlinguistica e quali sono i suoi fini culturali.

Giacomo Comincini ‒ L’Interlinguistica è una disciplina accademica che studia le lingue pianificate, come l’Esperanto, o lingue franche, come i pidgin, ma anche i fenomeni di comunicazione internazionale e contatto linguistico. Il suo obiettivo culturale è duplice: da un lato, capire meglio come avvenga la comunicazione tra popoli e culture differenti; dall’altro, immaginare e promuovere strumenti che rendano questa comunicazione più equa, efficace e democratica. Accanto al rigore scientifico della linguistica, quindi, si agita un inevitabile idealismo umanitario.

‒ Quindi questo ha a che fare anche con l’Esperanto, la lingua internazionale che ha sempre suscitato curiosità, ma con risvolti spesso negativi. Perché c’è questo scetticismo nei confronti dell’Esperanto?

G.C. ‒ All’Esperanto sono spesso stati attribuiti stereotipi ingiusti: lo si è visto come un sogno irrealizzabile, una bruttura incapace di produrre letteratura o una forma elitaria di onanismo. Alcuni totalitarismi novecenteschi l’hanno provato a sfruttare, altri hanno fatto di tutto per annientarlo. Ora lo si prova a liquidare perché “serve a poco”. Eppure la società civile continua ad alimentare questa lingua, sfornando giovani interessati a studiare un idioma umano prima ancora che nazionale.

‒ Mi piace questa definizione: idioma umano prima ancora che nazionale. Come lo spieghi?

G. C. ‒ Le lingue nazionali sono per forza di cose figlie e genitrici di processi di esclusione, selezione e imposizione. L’Esperanto non è arma di alcun ministero, portaborse di alcun potere, santo vangelo di alcuna vulgata epica di un ethnos. Semmai è lingua di un demos, di una collettività che si riconosce nella propria essenziale umanità. La nazionalità si eredita, mentre l’esperantismo è una decisione. Anche l’identità deve poter essere democratica.

‒ Dunque una scelta e, per giunta, democratica.

G. C. ‒ E infatti, senza uno stato dietro o un soft power da cavalcare, l’Esperanto continua a esistere, a funzionare, a creare comunità interculturali, ad alimentare arte e identità. La resistenza contro cui si scontra ha a che fare con lo scetticismo verso ciò che mette in discussione la realtà consolidata, anche linguistica.

‒ E quali sarebbero o meglio sono, invece, i suoi lati positivi, oggi e in prospettiva?

G.C. ‒ Oggi l’Esperanto è un laboratorio linguistico vivente, una comunità globale che comunica su basi di parità e rispetto reciproco. È una lingua democratica, che si apprende logicamente, che sviluppa una coscienza interculturale e che promuove l’empatia verso l’altro. Essendo minoritaria insegna a ciascuno di noi a sentirsi minoritari, non elitari. Non ha un accento zotico e uno elegante, è di casa in tutto il mondo, non fa da cane da riporto di narrazioni escludenti o di disegni di supremazia. La comunità che la impiega magari inizia a usarla per viaggiare o divertirsi, ma finisce per sentirsi popolo.

Ed è anche lingua propedeutica per l’apprendimento delle lingue. Un collega norvegese, mi disse che al primo anno del corso di lingue moderne, c’era appositamente un corso di Esperanto.
Ma veniamo ad Arcadia. All’ultima assemblea del IIC hai esposto il progetto per una nuova rivista culturale: Arcadia, insieme ad Alessio Giordano, intellettuale ed esperto linguista. A chi si rivolge, quali sono i fini di questa rivista e qual è la strategia editoriale?

G.C. ‒ Arcadia sarà spazio di riflessione e un acceleratore culturale di particelle. Credo che essere cittadini di una Repubblica, e non sudditi, crei il diritto e imponga il dovere di formare e formarsi. Il nostro intento è creare una rivista trasversale, che abbracci linguistica, identità, politica e storia culturale. La strategia? Qualità prima di tutto: testi curati, grafica elegante, sinonimia tra etica ed estetica. In Arcadia ci si dirigeva per trovare rifugio, ma anche slancio di ripartenza. Il nome è provvisorio, ma l’anima è definitiva. O immortale, come diceva Robespierre? (ride).

Come e per quale interesse personale, tu e Alessio Giordano, avete studiato l’Esperanto e quale ruolo svolgete nella comunità esperantofona? Per quali motivi lo suggerireste ai giovani?

Portare fame di cultura dove l’appetito va risvegliato

G.C. ‒ Per me e Alessio l’Esperanto è stato un incontro folgorante: un po’ per passione linguistica, un po’ per curiosità politica e culturale. Peraltro Alessio è stato il mio maestro e in molte forme lo è tutt’ora. L’Esperanto una lingua che ti invita a pensare al mondo, non solo al tuo angolo di mondo. Nella comunità esperantofona cerchiamo di portare un contributo critico, organizzando eventi, scrivendo, fungendo da ambasciatori, ma anche partecipando all’autogoverno della Comunità dei Cittadini Esperanto (Esperanta Civito). Lui dirige Literatura Foiro, per cui disegno le copertine; insieme scriviamo per Heroldo Komunikas e prendiamo parte a realtà associative come il Centro Italiano di Interlinguistica, che da aprile 2025 “vicepresiedo” a fianco del notissimo Giorgio Silfer. Finisco tardi ogni sera ma mi addormento felice. Non basta questo per scegliere l’Esperanto?

‒ Anche se nelle riviste tecniche che ho diretto negli anni passati e in questa che ho avviato ormai da 15 anni, ho sempre voluto pagine culturali sulla grafica e la comunicazione e che hanno un certo seguito, mi rendo conto che oggi purtroppo la cultura non è tra le priorità. Hai fiducia nei giovani a questo riguardo?

G.C. ‒ Senza dubbio. Eviteremo di fare nicchia e massa critica, che sono strategie per “perdere bene”. Andremo a portare fame di cultura laddove l’appetito va risvegliato. Dopodiché il metabolismo si riaccende e nasce un bisogno. Ai giovani interessa vivere un’identità collettiva. Il Centro Italiano di Interlinguistica farà la sua parte per capire la componente identitaria di questi anni.

Vorrei andare più nello specifico: la comunicazione oggi, almeno per noi non della GenZ, ma anzi, un po’ datati, è completamente cambiata. E peggiorata. La lingua stessa si è impoverita e temo che la tendenza sia verso un ulteriore peggioramento. Certamente la Cultura in sé è un antidoto. Ma la cultura linguistica, e interlinguistica in particolare, può essere utile a creare, se non altro delle “isole felici”?

G.C. ‒ Credo proprio di sì. La cultura linguistica – e ancora di più quella interlinguistica – ci educa a un ascolto portatore di arricchimento, pluralismo e trasversalità. Il miracolo del riuscirsi a vivere in seconda persona, invece che in prima o in terza. Ma dalle isole a un certo punto si deve salpare. Il nostro spazio deve essere nella società, in mezzo alla gente, dove possiamo metterci al servizio dei bisogni delle persone.

In sintesi  
Con la rivista Arcadia, Giacomo Comincini e Alessio Giordano accendono una nuova scintilla nel panorama culturale italiano. Una sfida necessaria in tempi in cui il linguaggio si impoverisce e la comunicazione si frammenta. Un invito, non a rifugiarsi in una nicchia, ma a formare comunità, a portare cultura dove sembra mancare, per scoprire che la fame di conoscenza, in fondo, è ancora viva. Il progetto Arcadia, trasversale e ambizioso, nasce per esplorare i temi della linguistica, dell’identità, della politica e della storia culturale con uno sguardo giovane, acuto e fuori dagli schemi. L’Esperanto, che Comincini definisce “idioma umano prima che nazionale”, è uno dei cuori pulsanti di questa visione, non solo come lingua, ma come proposta democratica e interculturale. In Arcadia l’etica si fonde con l’estetica, l’impegno con la leggerezza.

Marco F. Picasso