Capitolo I – La partenza e il Lussemburgo

Questo viaggio è stato deciso piuttosto in fretta, in pochi giorni visto l’inaspettato buon risultato degli esami di maturità. All’epoca, alla fine degli anni ’50, la maturità liceale non era uno scherzo: si portavano tutte le materie e quasi tutte anche con lo scritto (in particolare il latino anche nel liceo scientifico).
Dopo aver passato alcuni giorni per i preparativi sia di ordine turistico, sia personale come la tessera degli Ostelli della Gioventù (A.I.G.) per i pernottamenti, che dovevano essere rigorosamente economici, fui finalmente pronto a partire. Naturalmente dovevo prima uscire dall’Italia, perché era impensabile sperare di fare l’autostop nel nostro territorio. Decisi, su insistenza di mia mamma, di non limitarmi a passare i confini, ma di andare in treno fino a Lussemburgo. Da lì avrei proseguito per Bruxelles che era la prima tappa obbligata. Il resto era lasciato al caso anche se la destinazione finale era Vejle, una cittadina della Danimarca nella quale viveva una ragazza con cui ero in corrispondenza, e che conoscevo solo in fotografia.
Preparai il denaro necessario e sufficiente in franchi belgi e dollari: il tutto per l’equivalente di 37.000 lire italiane, sicuro di farmele bastare. Mia mamma mi aveva cucito una tasca segreta all’interno dei pantaloni. Partendo direttamente da Lussemburgo avrei guadagnato giorni preziosi.
Per quanto riguarda gli ‘effetti personali’ si limitavano  solo a un paio  di ricambi, giacca a vento, maglione, asciugamano, spazzolino da denti, bandierina italiana e un quaderno per il mio ‘diario di bordo’.
Il treno partiva dalla stazione di Genova Principe la sera del 2 agosto alle 18,34 e dovevo cambiare a Milano, città per me all’epoca assolutamente sconosciuta. Qui, alla stazione Centrale trovai il treno con vettura diretta a Ostenda. Il programma era di dormire in treno, dove avrei passato tutta la notte, per poi sbarcare al mattino presto a Lussemburgo.
Però durante il viaggio conobbi diversi altri ragazzi che erano diretti in Belgio, per cui passai piú tempo a chiacchierare che a dormire. La prima che trovai fu una ragazza di Bruxelles che parlava discretamente l’italiano. Mi consigliò cosa vedere in Belgio, anche se non capiva cosa ci andavo a fare, visto che l’Italia “è cosí bella e c’è il sole, mentre lassù in agosto comincia a piovere e a far freddo.”
Evidentemente amava l’Italia e non lo ho chiesto se anche qualche italiano.
Con altri giovani passai diverse ore in allegria dormendo appena nelle ore piú fonde della notte. All’alba si vedevano già le prime città della Francia del nord, Metz e Thionville, e alle 9,30 giunsi a Lussemburgo.
Qui dovetti finalmente farmi coraggio e tentare per la prima volta di parlare francese, anche se non ero proprio sicuro che nel Granducato si parlasse francese o chissà cosa. Al liceo avevo studiato inglese; il francese era un ricordo delle medie, ma forse soprattutto della prima elementare frequentata presso le suore di Nevèrs; per cui, prima di partire, avevo letto un intero romanzo in francese, tanto per fare un po’ d’esercizio.
Comunque dopo i primi tentativi ci presi gusto e lo parlavo tanto volentieri che qualcuno mi prendeva per belga: evidentemente i belgi non parlano un buon francese. E di questo avrei avuto modo di accorgermi, ascoltando le dispute tra fiamminghi e valloni: i primi contestavano il fatto che dovevano imparare il francese, mentre ai valloni non era fatto obbligo di imparare il fiammingo. Oggi, considerando che non conosco un belga (fiammingo) che ammetta di parlare francese, forse le cose sono cambiate. Armoiries_Luxembourg

Il 3 agosto, giorno di approdo a Lussemburgo (o in Lussemburgo?, dipende se lo considera una città o una nazione, ma io ero arrivato in una città) era un mercoledì. Il tempo un po’ incerto di primo mattino era anche fresco e con delle nuvole che promettevano poco di buono.
La mia idea era di fermarmi lì tutta la giornata e dormire all’ostello per iniziare il viaggio in autostop il giorno seguente. Chiesto a un signore se sapeva indicarmi la via dove si trovava l’ostello, mi incamminai verso il centro nella zona che mi era stata indicata. Lussemburgo è (era) una città tranquilla e silenziosa e, a prima vista, mi sembrava anche piacevole. Vedevo davanti a me una autentica città fiamminga medievale: bastioni, mura a torri con le bandiere del Granducato che spiccavano dappertutto, case dai tetti a scala di tipo olandese, benché qui mi sembra che vi fosse ancora una certa influenza tedesca.
PfaffentahlGiunsi a un ponte da cui vedevo dalla parte sinistra, oltre a una valle, il centro della città, molto alberata e, tra il verde, le grandi costruzioni antiche. Sotto di me, a destra, la valle che continuava; si chiamava Pfaffental e non sembrava aver nulla di bello, ma era lì, mi dissero dopo, che si trovava l’ostello. Cioè nella città bassa. In effetti la città di Lussemburgo si trova su uno sperone roccioso che domina la confluenza tra due fiumi: la Pétrusse e l’Alzette. Uno sperone su tre lati a strapiombo sulla valle tanto da essere sempre stata considerata una vera e propria fortezza, e forse per questo, un po’ come San Marino, ha mantenuto la sua indipendenza.
Proseguii chiedendo però ancora informazioni, non essendo sicuro della strada: naturalmente l’uomo cui avevo chiesto informazioni all’inizio non mi aveva detto che dovevo scendere. Un anziano signore al quale avevo ancora chiesto lumi, dopo avermi squadrato tre o quattro volte, mi disse di andare avanti e scendere dal prossimo ponte: Adolph Brueckema occorre ricordare, come ho saputo in seguito, che la città conta cinquanta ponti, tra cui il famoso ponte Adolph in pietra con una volta unica che pare sia (fosse) la più ampia al mondo.
Scesi per delle lunghe scalinate trovandomi in un gran parco, dove vedendo solitarie e invitanti panchine, ricordai di aver dormito ben poco e che soprattutto non avevo ancora mangiato niente dal giorno prima. Mi fermai e con gran piacere divorai quel poco di pane e non ricordo cosa, che mi ero portato dietro.
Finalmente, dopo aver chiesto una terza volta – e pensare che sono restío a chiedere informazioni persino a Venezia – mi incamminai dalla parte opposta a quella dove ero stato mandato, verso questo ormai famoso, o piuttosto fantomatico, ostello.
Avevo sentito dire da qualcuno che Lussemburgo è una città antipatica, ma direi pure un po’ scema. A meno che i lussemburghesi non si divertano a prendere in giro gli stranieri.
Alla quarta richiesta d’informazioni mi dissero di passare oltre il ponte della ferrovia, ma “al di qua del ponte”, però a sinistra e non a destra, e cosí via. Insomma per fare venti metri in linea d’aria, la topografia del luogo obbliga un povero diavolo a compierne almeno cinquecento per trovare l’unico ponte buono.
Comunque quando volle il cielo giunsi a questo ostello della gioventù. Era molto grande e aveva un bellissimo giardino: pregustavo già una serata piacevole in compagnia.
Ma ovviamente non avevo fatto i conti con l’oste perché l’ostello era già completo e, non trovando posto per quella sera, dovetti rassegnarmi a decidere in quale altro posto andare: nel Granducato c’erano altri quattro ostelli: uno a sud a soli 19 km, ma dalla parte opposta della mia destinazione; uno a Entracht, verso la Germania, uno a Ettelbrück e un altro a Wiltz proprio sulla strada verso il confine con il Belgio. Optai per quest’ultimo che naturalmente era il più lontano, e si trovava a una settantina di km verso nord-est.
Pensai dunque di risalire verso la civiltà del centro città, visitare il centro storico e quindi di proseguire all’inizio del pomeriggio, pensando con ottimismo che per fare 70 km in autostop sarebbero bastate al massimo un paio di ore.
È naturale che dopo aver fatto quel giro dell’oca mi fossi ormai perso completamente. Non sapevo piú da che parte era il centro della città, né da che parte sarei dovuto passare per uscirne. Mi arrampicai dalla parte che sembrava piú o meno quella stessa dell’andata, ma mi trovai in mezzo a un bosco da dove, fra due alberi potevo vedere il centro città dalla parte completamente opposta della valle: non mi rimaneva che scendere e salire ancora dato che, nonostante la loro abbondanza, di ponti non ne vedevo.
Ridiscesi e finii al cimitero, nel senso che ero proprio capitato in quel luogo, che pensai anche di visitare. Da quella volta, quando ne ho l’opportunità visito sempre cimiteri, specialmente nelle piccole città o nelle città che hanno avuto personaggi famosi. È molto interessante quello che si può vedere e imparare nei cimiteri. Tra i più interessanti, a parte Staglieno a Genova che è tra i più monumentali al mondo, bisogna citare Parigi e Budapest, per non parlare di Praga; e in certi villaggi inglesi e del nord Europa ne ho trovati di bellissimi, da aver voglia di restarci. Altro vantaggio nell’aver trovato questo cimitero, è che proprio da lì partiva la strada per Wiltz.
Sapevo almeno che da lì sarei ripassato nel pomeriggio. Nel frattempo era ormai quasi mezzogiorno e il sole aveva scacciato le nuvole e, contrariamente a quello che mi aveva detto la ragazza incontrata in treno, anche a nord può fare caldo. Tanto piú in salita e con una sacca da viaggio in spalla.
Risalii mani e piedi su per un sentiero degno se non delle nostre Alpi, almeno degli Appennini. Nella sacca le camicie di ricambio si stavano trasformando in piombo, ma finalmente riuscii a ritrovare il centro della città, che mi fece ancora una buona impressione come quella stessa mattina.
Attraversai le eleganti vie del centro cercando anche qualche negozio di pane, dato che con tutti quegli accidenti mi era venuta una gran fame, tanto che cominciai a sognare la tavola con tanto di tovaglia che a quell’ora era pronta nella mia casa di Genova.
Comprai due panini e con il salame che avevo portato da casa e non ancora consumato, feci un pranzo solenne su una panchina del parco (ma quanti parchi ci sono nelle città del nord). Seguì una coca-cola, bevanda che abitualmente detesto, ma quando avevo chiesto una birra avevo suscitato un certo scandalo. E sí che ero già maggiorenne.
Grand_Ducal_Palace_in_LuxembourgVisitai finalmente alcune delle belle costruzioni che meritavano almeno un’occhiata, come la cattedrale, il palazzo del Granduca (solo all’esterno ovviamente) e vari altri edifici senza sapere cosa fossero, anche perché non avevo trovato né una mappa della città né, cosa assai peggiore, una carta stradale dello Stato. Nell’unica carta europea che avevo il Lussemburgo non occupava piú di una mezza unghia.
Mi incamminai quindi nuovamente verso la parte bassa della città, cioè il prolungamento della Pfaffental, dove avevo visto le indicazioni della strada per Wiltz. Dato che la strada statale attraversava ancora la città, cercai una scorciatoia e raggiunsi cosí in breve la strada con l’indicazione per Wiltz: ma da lì non vedevo passare automobili e la strada mi pareva molto piú piccola di quella che avevo lasciato. Continuai a camminare per circa un quarto d’ora, che per me equivale a un km, quando vidi ancora la strada grande sulla quale avrei dovuto attendere.
Del resto non ero nuovo a queste camminate per uscire di città. Qualche anno prima, in Germania, ero a Monaco e dovevo tornare a Stoccarda. Avevo appuntamento con un amico di mia sorella all’ingresso della Autobahn e io ero in centro. Con spirito di abnegazione e molta ingenuità mi
incamminai seguendo i cartelli indicatori, senza considerare che io non sono una macchina. Camminai tre ore. Naturalmente non mi venne neppure in mente di vedere se ci fossero dei mezzi pubblici. Ma arrivai per tempo.
Quindi anche qui a Lussemburgo tentai di uscire a piedi, senonché ero ancora in città, o meglio era la città che arrivava fin lì e proseguiva oltre. Camminai ancora con l’intenzione di uscire in campagna, non evitando tuttavia di fare il rituale segno alle poche auto che passavano e che mi ignoravano completamente. Erano circa le due del pomeriggio e continuai finché vidi il cartello che indicava l’inizio, e non la fine, della città di Lussemburgo perché l’indicazione dava 6 km al centro.
Ma ciò che è peggio, è che appena un metro oltre un altro cartello indicava un altro paese, per cui mi trovavo ancora in pieno centro abitato. Quando anche questo fu dietro di me, non mi restava che decidere se fermarmi ad attendere o proseguire tentando di portarmi il piú possibile in aperta campagna. Tanto non avevo intenzione di tornare a dormire a Lussemburgo. Certo che 70 km a piedi non si percorrono in un pomeriggio, ma da qualche parte sarei pure arrivato e le giornate estive sono lunghe.
Continuai a camminare ma nessuno si fermava. Intanto il sole si era fatto ferocissimo, altro che freddo nord, almeno per ora. Mi scagliava contro tutte le sue frecce piú pungenti, provocando in me una sete da cavallo.
Non volendo cedere e non volendo destare scandalo a chiedere una birra nei pur rarissimi locali o negozi che incontravo, mi impossessai di un paio di mele verdi che un ramo provvidenziale fece sporgere sulla mia testa da un giardino, e mi misi a rosicchiarle lentamente per un buon quarto d’ora.
Neanche a dire che dopo la sete era ancora piú forte, finché dinanzi a un cimitero di campagna, entrai in un piccolo bar, ben deciso a ordinare una birra. Mi lamentai anche con l’oste della poca cordialità dei lussemburghesi che non davano passaggi ai “nomadi”, mentre quello faceva finta di meravigliarsi della mia sfortuna, assicurandomi che sarei riuscito a raggiungere Wiltz senza alcun problema. Fra noi si parlava francese, ma scoprii che con altri avventori della zona parlava una lingua che somigliava molto, senza esserlo, al tedesco. Non capii se era la lingua del Lussemburgo o un dialetto. Seppi solo piú tardi, quando fu realizzata la Comunità Europea, che era la lingua ufficiale del Granducato, o uno dei suoi dialetti, il Letzemburghese che oggi è una delle (tante) lingue ufficiali della UE.
Ripreso il cammino, sentendo sempre piú il peso della sacca da viaggio che portavo a tracolla – all’epoca non si usava lo zaino che era utilizzato, chissà perché, solo per le gite in montagna e che comunque non erano leggeri e comodi come quelli di oggi – alle quattro e mezza giunsi a un piccolo paese dove sulla strada c’era la stazione ferroviaria.
Entrai a vedere gli orari, ormai rassegnato alla prima onta di autostoppista (ne avevo subita una precedente l’anno prima in Svizzera a Mesocco, dove dovetti prendere il treno per salire a Splügen, comunque ben ripagato il giorno seguente con due avventurosi passaggi: il primo da parte di un signore che guidava un’auto sportiva con una tale disinvoltura e velocità che mi pareva di essere il navigatore in un rally; il secondo con un boscaiolo che nella valle del Reno sopra Coira mi fece fare una deviazione per andare a trovare degli amici proprio in mezzo ai boschi: in realtà ero un po’ timoroso di finire in un asado, ma furono invece molto gentili e a metà mattinata feci una splendida colazione a base di salsicce, pane nero e birra). Mentre guardavo l’orario un treno che andava proprio nella direzione giusta si fermò e riprese la sua corsa verso la mia destinazione. E io rimasi a guardare come un allocco. Mi consolai constatando che tanto in quella stazione non c’era neppure la biglietteria. Il prossimo treno passava dopo quasi tre ore e quindi non faceva per me. Vidi però che alla prossima stazione, piú importante, ne partiva uno alle 17,25 per Ettelbrück dove c’era un ostello. Mi sarebbe bastato percorrere i 7 km che mancavano in poco meno di un’ora. Coraggio. Mi rimisi in marcia con decisione dimenticando la stanchezza.
Ma la configurazione del Paese (che è piccolo solo sulle carte geografiche) è alquanto accidentata, un continuo saliscendi e le salite mi facevano perdere molto piú tempo di quanto ne potevo guadagnare in discesa. Alle cinque avevo percorso circa 4 km (una bella media) e avevo quindi buone speranze di farcela, quando mi trovai davanti una salita piú dura delle altre. Dovetti persino fermarmi a togliere la sacca che cominciava a rovinarmi la spalla. Nel frattempo vidi una VW avvicinarsi piuttosto lentamente, feci istintivamente il segno e quale fu la mia commozione nel vedere la freccia a destra e i fanali rossi dei freni accendersi!
Mi avvicinai di corsa e con mia sorpresa mi sentii chiedere dove volevo andare. “Volevo”? Che parola impossibile per me! Risposi. “Ou allez vous, Monsieur?” “Je vais a Wiltz”.
Il giovane che guidava mi fece salire e mi disse che andava a Ettelbrück, ma che comunque mi avrebbe portato sulla strada di Wiltz, dato che non era questa la strada giusta. Accettai ben volentieri non sazio di avventure quel primo giorno; avrei potuto benissimo fermarmi a Ettelbrück dove c’era l’ostello, ma ormai avevo in testa Wiltz e questo era il mio piano. Ora sí che potevo godermi il paesaggio, quelle valli ampie e dolci, i campi coltivati, i boschi e i ruscelli e soprattutto le salite, ma anche i ponti su vallette, la strada stessa. Uno Stato degno di essere visitato, in auto naturalmente. In poco piú di un’ora d’auto e lo si attraversa tutto.
In breve giungemmo a Ettelbrück, una piccola cittadina con il suo centro storico. Pare che il suo nome derivi da Attila, che durante un’invasione degli Unni vi fece costruire un ponte (ponte di Attila, così dice infatti il nome) per attraversare il fiume Alzette, lo stesso della città di Lussemburgo.
Con una breve deviazione su una ripida salita, il giovane mi portò sulla strada, la E10, che portava a Wiltz e quindi a Bruxelles.

Il monumento agli scout di Wiltz

Il monumento agli scout di Wiltz

Qui mi lasciò il mio amico assicurandomi che senza difficoltà avrei trovato qualcuno che mi portasse verso Wiltz, che come paese era un po’ fuori dalla strada principale. Lo ringraziai e mi misi in strada. Erano circa le 17,30 e già il sole era già piuttosto basso. Dimenticavo che in agosto le giornate non sono piú cosí lunghe e a quell’epoca non c’era ancora l’ora legale. Erano le 17,30 solari, quelle che oggi, in estate, sono le 18,30. Oltretutto la strada in quel punto attraversava un bosco, non c’erano né paesi né case, per cui c’era anche poca luce. Feci conto che comunque Wiltz non doveva essere tanto lontana e che quindi potevo tranquillamente riprendere il mio cammino a piedi.
Fui però fortunato perché mentre già pensavo di dover dormire nel bosco, vidi un camion che al mio segno si fermò proprio davanti a me. Chiesi al conducente se andava a Wiltz; “Oui, tout près de Wiltz” mi rispose, e salii. Mi portò dove per lui era “tout près”, cioè a 5 km dal paese.
Percorso che feci naturalmente a piedi in 50 minuti, ma in leggera discesa, ancora in mezzo a un bosco. Fortuna che da queste parti i paesi stanno in basso, e non in cima alle colline come in Italia.
Improvvisamente si aprì davanti a me una valle nella quale vedevo un paese alquanto grande. Nel Granducato, ho notato che sono molte le città e i paesi che sorgono nelle valli, elevandosi ai suoi lati, ma mai ne ho visi sulle alture. Forse perché loro non dovevano difendersi dai saraceni. O forse per ragioni climatiche, perché nelle valli erano piú riparati dai venti e dal freddo.
Wiltz è un paese con numerose costruzioni moderne e con anche un monumento veramente degno della moderna arte costruttiva con arcate che hanno uno strano effetto acustico. A Wilz si svolge infatti un Festival musicale di una certa importanza. La città ospita anche il monumento ai boy-scout. Il suo nome in lingua celtica, significa “vicino a un torrente” che infatti è l’omonimo fiume sulle cui rive sorge la cittadina. Parliamo sempre di città in Lussemburgo anche se raramente superano i 5000 abitanti, a parte la capitale.
L’ostello lo trovai dopo non poche ricerche in mezzo a un boschetto quando ormai si era fatto buio. Appena entrato feci onore al buon pranzetto preparato dalla “mamma albergatrice” e strinsi subito amicizia con alcuni ragazzi tedeschi. Dopo cena andai con loro a bere l’agognata birra in paese, dopo di che, dopo aver incontrato due americani che conoscevano Genova per esserci passati alcuni mesi prima, andai a letto stanco morto dove non tardai ad addormentarmi, nonostante ci fosse un po’ di trambusto, perché sembra che un gruppo di ragazzi avesse deciso di visitare la camerata delle ragazze. Durante la notte ci fu un incidente che mi insegnò a scegliere la cuccetta giusta per il futuro: mi scivolarono a terra le coperte e io ero sulla cuccetta superiore; per cui dovetti scendere e mi presi un gran freddo.

Leggi qui la seconda tappa.  Leggi qui “perché questo diario