Questo è il primo capitolo del diario di viaggio compiuto in autostop da Genova alla punta estrema della Danimarca nell’agosto del 1960. Il diario scritto su un quaderno da un ragazzo di 19 anni, è poi stato riveduto e trasformato in libro (di prossima pubblicazione) dopo sessantadue anni. Com’era l’Europa negli anni Sessanta in piena guerra fredda ? In un clima di rinascita e di rivalsa post bellico, i giovani volevano ritagliarsi un posto nel mondo e, in anticipo sulle rivoluzione del Sessantotto, erano spesso in contrasto con i governi che consideravano distanti e insensibili ai bisogni reali delle popolazioni e concordi nel diritto dei popoli di decidere il proprio futuro in maniera autonoma.
Dopo alcune esperienze di autostoppista in Germania e in Svizzera, negli anni precedenti, alla fine del luglio 1960 decido di attraversare l’Europa fino alla Danimarca. Voglio capire come i miei coetanei vedono la nascente Comunità Europea istituita il 25 marzo 1957 e in vigore da due anni e mezzo, essendo nata ufficialmente il primo gennaio del 1958.
Il programma che mi sono fissato è semplice: partenza in treno da Genova e poi, superato il confine e anche la Svizzera, seguirò un itinerario abbastanza lineare attraverso un tratto di Francia, il Benelux, la Germania, per poi raggiungere una città danese dove sono in corrispondenza con una ‘amica di penna’. Gli ‘amici di penna’ o forse meglio noti come ‘penfriend’ erano una consuetudine tra studenti, sia per esercitarsi in una lingua straniera, sia per tenere contatti con il mondo esterno. Siamo alla fine degli anni ’50, 15 dopo la fine della guerra, c’è molta voglia di comunicare e il solo mezzo a disposizione è la posta; gli strumenti a disposizione sono carta e penna. E francobolli. Negli ultimi anni del liceo mi ero già fatto alcuni amici in Germania, ma anche nell’est europeo al di là della Cortina di Ferro, e persino una ragazza in Giappone. Si corrispondeva soprattutto nella lingua che si studiava a scuola, nel mio caso l’inglese, ma nell’ultimo anno si era aggiunto, come vedremo, l’Esperanto.
Sarei partito subito dopo aver superato gli esami di maturità scientifica, che all’epoca non erano uno scherzo: si portavano tutte le materie, scritto e orale e, quel che è peggio, anche la versione di latino.
Mi ero preparato studiando con alcuni compagni e amici, Francesco, Carlo, e con Pierino, uno studente lavoratore, che mi avrebbe accompagnato per una parte del viaggio. Ma in quell’inizio di estate, proprio nei giorni cruciali per la preparazione degli esami, Genova era stata al centro delle cronache, per quelli che furono poi ricordati come “i fatti di Genova”.
Di quel periodo ci era rimasto impresso il pomeriggio del giovedì 30 giugno, quando in casa ci rendemmo conto che era difficile studiare. Ci lacrimavano gli occhi, ma non sapevamo perché. La ragione ci fu chiarita da mia mamma quando mi telefonò nel tardo pomeriggio, dicendomi di non andare a prenderla alla solita ora perché c’era, diceva, “un po’ di confusione” nelle strade, e sarebbe stato prudente aspettare che si calmassero le acque. Solitamente verso le 19 prendevo la ‘600’ e andavo ad aspettarla in Piazza Matteotti, quando chiudeva il negozio di profumeria in pieno centro, di fronte alla cattedrale di San Lorenzo.
Cosa stava succedendo? Proprio in quella zona, a partire dalla soprastante e centralissima piazza De Ferrari, la polizia aveva attaccato i manifestanti dopo un corteo che era stato organizzato contro la decisione di tenere il Congresso del Movimento Sociale Italiano, il partito neo-fascista, a Genova. Decisione che fu considerata provocatoria per una città, medaglia d’oro della Resistenza e notoriamente antifascista.
Ma perché quella manifestazione? Quali furono le premesse?
Tra il febbraio e il marzo 1960 in Italia era caduto il secondo governo Segni, a causa di tensioni interne alle forze politiche che lo sostenevano, per la possibile apertura ai socialisti di Pietro Nenni. Ad Antonio Segni venne chiesto di provare a costituire un nuovo esecutivo, ma i suoi tentativi non ebbero successo.
Il 21 marzo fu incaricato Tambroni, anche lui esponente della Democrazia Cristiana in una corrente di destra, di formare il nuovo governo, che il 4 aprile ottenne la fiducia alla Camera, ma con i voti dei deputati missini, vale a dire del Movimento Sociale Italiano, i nostalgici del fascismo. Questi stavano in Parlamento, nonostante l’articolo 48 della Costituzione Italiana che vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista, articolo rafforzato nel 1952 con la cosiddetta legge Scelba, che vieta l’apologia del fascismo, sanzionando “chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità” [del disciolto partito fascista] e “chiunque pubblicamente esalta esponenti, princípi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”.
Quando fu chiaro che i voti missini erano stati determinanti per la formazione del governo, Tambroni fu fatto oggetto di feroci critiche e di accuse di filo-fascismo e dovette dimettersi, ma il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, decise di respingere le dimissioni e il 29 aprile in una nuova votazione ottenne la fiducia anche al Senato, ancora grazie all’appoggio esterno del MSI – del resto molte giunte locali a guida democristiana, tra cui Milano, si reggevano proprio sui voti missini –, inasprendo l’opposizione contro il suo governo, accusato di aprire le porte ai neofascisti, con le conseguenti dimissioni di alcuni senatori tra cui il ligure Carlo Bo, letterato e accademico, in quegli anni rettore dell’Università di Urbino e senatore nelle file della DC. Nel 1968 Carlo Bo fondò la IULM a Milano.
Pur in una situazione politica piuttosto delicata, per non dire tesa, che si avvertiva anche a scuola per le tensioni tra alcuni studenti dichiaratamente fascisti e la maggioranza che sposava idee democratiche, il Movimento Sociale Italiano decise, provocatoriamente, di convocare il sesto congresso a Genova, una vera provocazione per la città da cui era partita l’insurrezione del 25 aprile, prima dell’arrivo degli Alleati.
Non bastasse questo, quella primavera del 1960 fu per Genova decisamente difficile. L’atmosfera era tesa anche a causa della recente chiusura e il trasferimento di diverse industrie, tra cui l’Ansaldo-San Giorgio e alcuni cantieri navali. Situazione che perdurava già dai primi anni Cinquanta, con lotte sindacali contro le chiusure e le riduzioni di personale.
Tra noi studenti si aprivano discussioni perché avvertivamo le difficoltà che avremmo avuto per inserirci nel mondo del lavoro una volta terminati gli studi. Tra amici si discuteva su quale facoltà scegliere all’Università, e prevalevano quelle scientifiche: chi voleva fare chimica, chi farmacia, chi medicina. Fu forse anche per questo, oltre alla passione per la montagna e la natura, che poi mi orientai verso la facoltà di scienze geologiche.
Pur essendo la Democrazia Cristiana il partito della maggioranza relativa, a Genova il Partito Comunista Italiano era secondo e con una percentuale di voti superiore alla media nazionale, analogamente all’altro partito di sinistra il Partito Socialista Italiano, guidato da Pietro Nenni. Il PCI diverrà poi partito di maggioranza in città proprio dopo la rivolta contro Tambroni, nel 1963.
Le forze democratiche iniziarono a prendere posizione contro il progetto del congresso del MSI a Genova, dopo che un operaio aveva scritto una lettera-appello – pubblicata sull’Unità, il quotidiano del PCI – in cui chiedeva che la città prendesse posizione contro il congresso, appello che fu rilanciato il 2 giugno dal senatore comunista Umberto Terracini, uno dei padri costituenti della Repubblica.
Il 6 giugno i rappresentanti locali dei partiti comunista, socialista, socialdemocratico e repubblicano, affissero in città un manifesto in cui, denunciando il congresso missino come “una grave provocazione”, ribadivano il “disprezzo del popolo genovese nei confronti degli eredi del fascismo”.
Il 15 giugno, a una manifestazione indetta con lo scopo di protestare contro lo svolgimento del congresso MSI, parteciparono 20.000 persone con scontri, tra un gruppo di manifestanti e alcuni neofascisti, nel centro storico nella zona di San Lorenzo.
Gli animi si scaldarono ulteriormente il 24 giugno quando la Questura vietò un comizio di protesta contro il congresso, indetto dalla Camera del Lavoro, con la debole motivazione che l’autorizzazione non era stata chiesta coi tre giorni di anticipo previsti dalla legge.
A pochi giorni dal congresso la questura di Genova il Prefetto ricevette informazioni su possibili disordini – anche a causa delle condizioni precarie di povertà e disoccupazione in cui vivevano i lavoratori del porto – che si temeva degenerassero anche a causa della configurazione del centro storico, i caruggi *, che poteva favorire eventuali scontri e dove le camionette della polizia non sarebbero potute intervenire.
Nel frattempo, a dimostrazione della connivenza tra Tambroni e i neofascisti, il MSI informava il presidente del consiglio di aver deciso di celebrare comunque il congresso, facendo giungere a Genova “almeno un centinaio di attivisti romani, scelti tra i più pronti a menar le mani, contro i sobillatori”.
Il senatore ligure Sandro Pertini, il futuro e molto amato Presidente della Repubblica – che oggi ricordiamo soprattutto per il suo tifo ai mondiali di calcio in Spagna vinti nel 1982 – aveva tenuto un comizio antifascista mercoledì 29 giugno, in una piazza della Vittoria gremita da una “folla ordinatissima disciplinata e senza incidenti” come informava il giorno dopo il Secolo XIX, il quotidiano di Genova, tutt’altro che di sinistra.
Al comizio era seguito un pacifico corteo che, risalendo la via XX Settembre, raggiungeva la centralissima piazza De Ferrari, appunto come diceva il Secolo, “senza incidenti”, come io stesso potei constatare quando andai a prendere la mamma, quasi meravigliandomi nel veder tante camionette della polizia in piazza De Ferrari.
Tuttavia, il giorno dopo, il famoso giovedì 30 giugno le cose andarono diversamente. Vi fu un’altra manifestazione, cui presero parte anche i portuali, i ‘camalli’.
Ancora il titolo del Secolo XIX ci dà la spiegazione: “Sentendo il nome dell’odiatissimo Basile i genovesi perdono le staffe e ritornano in piazza”.
Ma chi era Basile? Carlo Emanuele Basile fu sottosegretario all’Esercito e prefetto di Genova ai tempi della Repubblica Sociale Italiana ed era ricordato in città per gli “editti” del marzo 1944, che causarono la deportazione di alcune centinaia di lavoratori per fornire ‘manodopera’ nei campi di lavoro della Germania nazista. Dopo la Liberazione, Basile fu condannato a morte, per poi essere assolto dopo vari ricorsi, grazie anche a una serie di amnistie e condoni, e continuò tranquillo la sua attività politica all’interno del MSI, in barba all’articolo 48 della Costituzione.
Così per il 30 giugno fu dichiarato uno sciopero generale che culminò all’inizio del pomeriggio in un lungo corteo per le strade della città, cui parteciparono ex partigiani, comuni cittadini, e numerosi studenti non impegnati con gli esami di maturità. E, soprattutto, i camalli che intervennero in massa, armati dei loro famosi ‘ganci’, i quali avevano deciso di intervenire non appena giunse notizia della sostituzione del questore con Giuseppe Lutri, noto per la sua attività contro la resistenza a Torino durante la dittatura fascista, e dell’arrivo a Genova della Celere di Padova, la polizia specializzata in tattiche di anti-guerriglia urbana. Insomma il fascismo non era affatto scomparso. Al tempo stesso, si erano mobilitate le Università e gli intellettuali di vario orientamento politico, oltre a numerosi studenti, contro lo svolgimento del congresso, tutti presenti al corteo.
Ancora, il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, affermando la sua opposizione al congresso, dichiarò che «Se la polizia sta cercando i sobillatori di queste manifestazioni, non abbiamo nessuna difficoltà a indicarglieli. Sono i fucilati del Turchino, di Cravasco, della Benedicta, i torturati della casa dello studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori.»
Insomma, mentre noi eravamo con un occhio concentrati sul Paradiso di Dante, su Kant e Schopenhauer, e a esercitarci nel risolvere derivate e integrali, con l’altro si percepiva una crescente tensione che ben percepiva chi per ragioni di lavoro frequentava il centro di Genova, i vicoli e il porto.
Sciopero e corteo, seppur in un’atmosfera tesa, si svolsero inizialmente senza problemi, solo fermandosi lungo la strada davanti al teatro Margherita in cui era previsto il congresso, e che era presidiato da gruppi di Carabinieri che furono fischiati, e poi davanti al Sacrario dei Caduti, dove furono cantati degli inni della Resistenza e uno in genovese appositamente modificato dai ragazzi del centro storico: “Emmu vintu a battaggia / emmu vintu a de ferrari / i fascisti e i se cumpari / han piggiou de priuné / vegnì a quattru a quattru / sci ben che ghei u baccu / vegnì a ottu a ottu / sci ben che ghei u scioppu / semmu du meu / purtemmu a maggia russa / guai chi ne tucca /u pigemmu a priunè. Ai fascisti do Tambroni / quattro calci nei… rognoni / quattro câsci into panê / che ne fàn ancòn mâ i pê.”
Era un adattamento della canzone dei partigiani genovesi della Resistenza, che iniziava con “L’èmmo vinta a battaggia / l’èmmo vinta in scia gea / i tedeschi cua bandea / l’èmmo missi a priunè”.
Sciolto il corteo molti risalirono verso piazza De Ferrari, da cui si sarebbero diretti alle proprie abitazioni nel centro storico o nell’area del porto. Molti si fermarono nei dintorni della fontana centrale della piazza, dove stazionavano mezzi motorizzati della polizia, oltre ad agenti a piedi. E qui la situazione cominciò a degenerare. Ai canti partigiani e slogan dei manifestanti le forze dell’ordine provarono a disperdere la folla con idranti, e con le cariche delle jeep intorno alla fontana.
A questo punto lo scontro divenne aperto: le camionette e le jeep della celere effettuarono cariche sia nella piazza, sia nelle vie limitrofe, sia sotto i porticati della parte alta di via XX Settembre. I manifestanti, che continuavano a fluire nella zona, nel frattempo si procurarono attrezzi da lavoro, spranghe di ferro e alcuni pali di legno dai vicini cantieri edili dove si stava ristrutturando il popolare quartiere di Piccapietra, reso famoso dall’episodio del Balilla contro gli austriaci, per contrastare le cariche delle camionette della Celere.
Le forze dell’ordine cominciarono a impiegare i lacrimogeni, ma anche armi da fuoco. Alcune delle camionette della celere furono incendiate e alcuni degli esponenti delle forze dell’ordine, tra cui il comandante della celere, finirono nella vasca della fontana.
Gli scontri si spostarono anche nei vicini “caruggi”, dove la popolazione residente “bombardò” con vasi da notte e pietre lasciati cadere dalle finestre, gli esponenti delle forze dell’ordine che inseguivano i manifestanti.
Insomma la popolazione genovese aveva detto no, forte e chiaro a un possibile rigurgito del fascismo.
Parecchio dopo le otto ricevo la telefonata di mia mamma, che mi chiede di andare a prenderla in piazza Matteotti, dicendo che la situazione sembra ora tornata alla calma, “ma i mezzi pubblici non vanno e non trovo neanche un taxi per tornare a casa”.
Prendo la Seicento e scendo in centro dove trovo calma sì, ma quando attraverso la piazza De Ferrari la vedo mezzo allagata per gli idranti e devo fare attenzione ai pezzi di legno e alle barre di ferro che ingombrano la strada. Sentendo l’aria che puzza ancora dei gas lacrimogeni, capisco perché nel pomeriggio ci lacrimavano gli occhi mentre studiavamo.
Le manifestazioni contro il governo Tambroni si estesero nei giorni seguenti ad altre città, da Torino a Livorno, da Milano a Ferrara, dove le forze dell’ordine fecero uso delle armi da fuoco con morti e numerosi feriti tra i manifestanti. Ma Tambroni rifiutò di dimettersi, persino accusando i comunisti di aver tentato un colpo di Stato. Quella che era una manifestazione democratica contro il fascismo fu passata dal governo e da certa stampa per un tentativo di rivoluzione comunista. Alla fine, ebbe ragione il buon senso: la maggioranza si sfaldò e il Governo Tambroni si dimise il 19 luglio.
Fu in quel clima che sostenni gli esami di maturità, che all’epoca duravano un paio di settimane.
* I ‘caruggi’ (o anche ‘carruggi’) sono i vicoli del centro storico di Genova, il ‘misterioso cuore della città’, cantato anche da Fabrizio De André “Ne sciurtimmo da u mä pe sciugà e osse da u Dria / e a funtann-a du cumbi ‘nta ca de pria”.
Chi fosse interessato a leggere il diario di viaggio (pag 172 – f.to 15×21), può prenotarlo scrivendo all’autore: marcofrancesco.picasso@gmail.com
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