Se Pisa era il ‘vituperio delle genti’ i genovesi dovevano essere ‘del mondo spersi’. Dante Alighieri non fu tenero con entrambi. E in effetti, come recita il titolo del racconto da cui prendiamo spunto “come i nostri avi dominavano i mari noi dominiamo gli stadi”,  i genovesi ‘del mondo spersi’ hanno portato la loro lingua in quattro continenti. E hanno anche tratto molti termini dalle altre lingue.

Da un racconto di Massimo Prati * liberamente adattato e integrato da Marco F. Picasso **.

In occasione di alcuni derby cittadini, la Gradinata Nord si presentò con una splendida coreografia: una caravella che navigava su un mare pieno di onde rossoblù. Sullo sfondo lo striscione che recitava: “Come i nostri avi dominavano i mari, noi dominiamo gli stadi”. Forse esagerato, ma tant’è, nei derby genovesi tutto è ammesso. 

Il dominio dei mari e la potenza storica di Genova sono due aspetti che continuano a fare parte delle coreografie della tifoseria organizzata. In altra occasione si vedeva un enorme striscione: “Respublica Superiorem non Recognoscens, così nella Storia, così negli Stadi”. Coreografie con chiaro riferimento alla storia passata.
Ma quali erano i mari dominati dai genovesi, e quali tracce hanno lasciato? Possiamo scegliere di partire dalle Crociate e dal Medio Oriente: Antiochia e Giaffa, Gibelletto e Tiro, Cesarea e Acri, Famagosta e Beirut, Sidone e la “Gerusalemme Liberata” di Guglielmo Embriaco, ricordata da Torquato Tasso, ma anche da maestri della pittura, tra Cinquecento e Seicento, come Lazzaro Tavarone, Bernardo Castello e Giovanni Battista Carlone, nelle loro opere d’arte.

Su e giù per il Mar Nero

Risaliamo verso il Mar Nero, alla Crimea e alla Russia, fino al Mare d’Azov, percorrendo una storica “Via della Seta”, dove, nel XIII secolo, i genovesi stabiliscono vari insediamenti come Tana, Cherson, Caffa, Cembalo e Soldaia, corrispondenti alle attuali Azov, Sebastopoli, Feodosia, Balaklava e Soudak. Degno di nota, per quanto riguarda la città di Tana, il fatto che – secondo alcune fonti – questo importante centro sul Mare di Azov fosse in coabitazione con i veneziani.

In un ideale viaggio a ritroso, a Istanbul, troviamo la torre Galata, costruita nel 1348 dai genovesi nell’omonimo quartiere della città. Incontriamo poi le isole greche del Mar Egeo, in particolare Chio dove si parlava il dialetto chiotico, con numerosi elementi lessicali liguri. L’isola fu infatti a lungo sotto il controllo della Maona (1) di Chio. La seconda va ricondotta alla storia dei Gattilusio, famiglia che – grazie al controllo dell’isola – si specializzò nel commercio di allume, un prodotto fondamentale nella tintura di stoffe e tessuti.

Fin qui, almeno oggi, del genovese resta ben poco. Se non le parole che i genovesi hanno assorbito dalle lingue locali: arabo, greco, turco.

Qualche esempio? Cabib (da cui il noto Cabibbo) da hhabîb che significa amico. Mandillo (fazzoletto), in greco mandillà, è un termine di origini arabe e greco-bizantine; però in arabo fazzoletto (ma anche tessuto per asciugare) si dice “mahhramà” da cui deriva il genovese macramé (asciugamano). Il mèzzero, in genovese méizou, è quel drappo stampato con l’Albero della Vita, tipicamente genovese, che era indossato dalle donne come scialle (a sua volta dal persiano scial): il suo nome deriva da “mi’zar” «velo». (v. l’immagine in alto).

Il mezzero usato come scialle già nel ‘200 e tornato di moda nel XVIII secolo


Il camallo viene direttamente dall’arabo “hammâl” (facchino), mentre i caravan-a, da “karavân“, erano l’élite dei camalli, che già dal 1340 si erano costituiti in compagnia di trasporto. Però questi non erano genovesi, bensì bergamaschi della val Brenbana (si dice affinché fossero politicamente neutrali, oltre che robusti). Quando le mogli dei caravana dovevano partorire tornavano a Bergamo, per assicurare una professione di tutto rispetto ai figli. Altro termine legato al mare e al porto è la cuffa (coffa in italiano) che indica la cesta usata dai carbunè, dall’arabo “quffa“.

Naturalmente ci sono parole arabe passate piú o meno direttamente all’italiano. Basti citare cutùn (cotone) che deriva dall’arabo “qutun“, e bezeffe (a bizzeffe) che deriva da “bizzàf“.

Un riferimento al turco lo abbiamo in Sinan Cabudàn Pascià (ricordato in una canzone di Faber), un genovese che fu ammiraglio della flotta del Sultano, di cui racconteremo, in una prossima occasione, una bellissima storia scritta da Bruno Sacone.

Mediterraneo

Dalle sponde europee del Mar Egeo passiamo a quelle dell’Africa mediterranea, dove finalmente troviamo proprio la lingua genovese.
In Tunisia sbarchiamo a Tabarca, antico centro di pesca del corallo e possedimento della famiglia dei Lomellini loro assegnato da Carlo V nel 1540, dove ancor oggi si può ammirare un forte che ci ricorda la presenza di una comunità genovese. A Genova, la basilica barocca dell’Annunziata, i cui interni sono di una rara bellezza, sono in gran parte legati ai proventi del commercio del corallo pescato intorno a quell’isola, a metà strada tra Annaba e Biserta. (2)

L’isola di Tabarca oggi

Il tabarchino (tabarchin) è una vera e propria lingua genovese, anzi pegliese, lì trapiantata dai pescatori di corallo di Pegli, ed è rimasta immutata nel tempo tanto da essere ‘più genovese del genovese’ di Genova. Qui la comunità pegliese restò quasi due secoli fino a quando a causa dell’ingerenza francese, nel 1738 una parte della popolazione preferì trasferirsi in Sardegna, sull’isola di San Pietro, fondando la città di Carloforte. Tre anni più tardi Tabarca fu occupata dal bey di Tunisi, e gli abitanti rimasti furono presi come schiavi. Molti di loro, riscattati, raggiunsero la comunità di Carloforte. Dopo anni di trattative economiche, di mediazioni condotte da un religioso e grazie all’intervento decisivo re di Spagna, Carlo III, alla fine nel 1769 anche i tabarchini rimasti furono liberati e trasferiti dapprima ad Alicante e poi in un’isola poco distante, che prese appunto il nome di Nueva Tabarca
Una parte dei Tabarchini rimasti a Tunisi in condizione di libertà si trasferirono nel 1770, su invito del maggiorente carlofortino Giovanni Porcile sull’isola di Sant’Antioco, dove fondarono Calasetta. Pochi altri Tabarchini rimasti in Tunisia, prevalentemente nei porti di Tunisi, Biserta e Sfax, costituirono una minoranza etnico-linguistica che godette di una certa tutela, conservando anche la loro lingua. L’uso del tabarchino in Tunisia è attestato fino ai primi del Novecento quando, con l’instaurazione del protettorato francese, la maggior parte dei Tabarchini optò per la naturalizzazione e molti di loro si trasferirono poi in Francia, pendendo l’uso della loro lingua madre.

La lingua tabarchina si mantenne (e si mantiene tuttora) intatta in Sardegna (Isole di San Pietro e Sant’Antioco).
Il legame dei carlofortini con l’isola nordafricana di Tabarca, ha lasciato tracce anche nella gastronomia, ed è per questo che nelle cucine dell’isola di San Pietro si prepara il cascà: il cous cous alla tunisina, nella variante carlofortina.
A proposito della lingua genovese conservata a Carloforte si racconta questo aneddoto: “lo raccontava un prof dell’Università di Sassari, che ebbe occasione di assistere a uno scambio di battute. Giardini della piazza di Carloforte. Una mamma richiama il bambino che se ne stava un po’ da parte dagli altri: “Cosse ti fae chi? Vanni là coi figgeu a divertite“. Un anziano signore interviene con tono classico del mugugno: “E no se dixe divertise. Se dixe demuæse.
Ecco un esempio di genovese-tabarchino: “Tütti i ómmi nàscian in libertè sun pàigi in dignitè e driti. Sun dutè de raxun e de cusciensa e han da fò l’ün con l’otru in piña fraternitè.” (Dichiarazione universale dei diritti umani, art. 1).
Quindi oggi si può affermare che il genovese è parlato nell’arcipelago del Sulcis: dall’87% degli abitanti di Carloforte, dal 68% degli abitanti di Calasetta, dal 72% dei bambini di Carloforte e dal 62% dei bambini di Calasetta in età scolare. Si calcola che siano circa 5.000 le persone che mantengono un uso familiare del tabarchino e sono residenti a Carbonia, Iglesias, Cagliari, oltre che, alcuni, ‘tornati’ a Genova.

E passiamo alla Corsica. Ma prima possiamo soffermarci in alcuni luoghi del sassarese i cui toponimi sono legati alla storia e alla lingua di Genova: Valledoria e Castelgenovese, con un legame a Branca Doria, quello che Dante mise, ancora in vita, all’inferno, da cui la famosa invettiva contro i genovesi “Ahi Genovesi, uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi?(Inferno, Canto XXXIII – 139-153). Da cui il titolo di questo racconto.   E infatti i genovesi sono per il mondo spersi, e con essi la loro lingua.

Dall’isola della Maddalena – dove era parlato un dialetto corso misto a bonifacino con forte influenza ligure – si passa in Corsica sbarcando a Bonifacio. Qui ancora si parla il moderno dialetto bonifacino (bunifazzin). Bonifacio “ha conservato uno specchio fedele del genovese antico, perché le comunicazioni con la madrepatria furono interrotte molto presto e i bonifazini non accolsero più le innovazioni successive del dialetto genovese” (Giulia Petracco Siccardi in Definizione storica del genovese).
A un bonifacino cui chiesi, in francese, “parlez vous génois?” mi rispose “E noiatri dixemmu: e cosse ti fæ; donde ti væ“.

Bonifacio è una delle più antiche colonie liguri in terra straniera. I legami con Genova risalgono alla fine del dodicesimo secolo eppure, sebbene affievoliti dal tempo, sono ancora piuttosto evidenti. Pochi mesi fa in un servizio che parlava di Bonifacio sul terzo canale della TV francese, un bonifacino, descrivendo la propria comunità, diceva che sull’isola loro si considerano, e sono considerati, come una “communauté de Génois” e, seppure a fatica, nell’epoca della sparizione di lingue locali e dialetti dalla Francia, a Bonifacio un’associazione lavora per preservare la loro lingua, che ha le caratteristiche del ligure parlato nel ponente della nostra regione.
In minor misura anche il 
dialetto ajaccino ha assonanze col genovese in quanto è una variante del gruppo corso mischiato col ligure.
Ancora in Corsica, nel nord abbiamo Calvi – “civitas semper fidelis” appunto riferita a Genova – e Bastia.  Qui le indicazioni stradali sono bilingue e quindi troviamo ‘carruggiu‘ accanto a ‘rue’. 

Per inciso, anche se il genovese non vi si parla più, possiamo risalire facendo scalo all’isola di Capraia, antico bagno penale, e ancora piú antico possedimento della Repubblica, da quando entrò infatti nell’orbita ligure nel tredicesimo secolo, a seguito della vittoria nella battaglia della Meloria.
Alla Capraia si parlava un dialetto
corso-toscano, con elementi grammaticali e lessicali liguri dovuti alla dipendenza dell’isola dal governo genovese della Corsica. E non dimentichiamo che Capraia è stata provincia di Genova fino al 1927.

E risaliamo in continente. Qui scorriamo rapidamente i 300 km della riviera da levante a ponente, per entrare in Francia dove raggiungiamo Monaco, i cui principi come è noto sono discendenti, dal XIII secolo, della famiglia Grimaldi di Genova. Qui la commistione tra francese, provenzale e genovese ha dato origine a una parlata ligure contaminata con le lingue franco-provenzali, come facilmente si intuisce belle prime strofe dell’inno del Principato:

Despoei tugiù in sciü d’u nostru paise
Se ride a u ventu, u meme pavayùn
Despoei tugiù a curù russa e gianca
E stà l’emblema d’a nostra libertà
Grandi e piciui l’an sempre respetà

Viene da dire che siamo proprio di fronte a una curiosa miscela di parole francesi, contaminate con l’occitano, e di genovese o di ligure di ponente: “Despoei tugiù”, cioè “depuis toujours” (da sempre); “meme pavayùn”, vale a dire “même pavillon”, nel senso lato di “stessa bandiera”; e poi ancora “a curù”, cioè “la couleur”: il colore (in genovese ‘‘).
Per ciò che riguarda il ligure, o il genovese, troviamo espressioni della lingua monegasca come “sciü d’u nostru paise” (nel nostro paese), con la precisazione che nel genovese “standard” la pronuncia sarebbe identica, ma la grafia richiederebbe una O al posto della U: “o nostro paise”; e poi, sempre a proposito d’affinità tra genovese e monegasco, troviamo ancora: “russa e gianca”, rossa e bianca (la bandiera), e “l’an sempre respetà”.

Fino agli anni ’60 si parlava un dialetto genovese occidentale in alcuni villaggi delle Alpi Marittime e nell’alta Val Roja, territori francesi dal dopoguerra.

Proseguendo in territorio francese, verso ponente, – non dimentichiamo che Marsiglia (Messalia) era per i greci una località dei liguri – restano ancora da citare Saint-Tropez e Aigues Mortes. Non per la lingua – anche se rimane qualche traccia nel dialetto provenzale figùn originario da Albenga – ma per la forte influenza genovese. La prima, è un antico borgo di mare colonizzato da una comunità genovese nella seconda metà del Quattrocento. Nel Medio Evo, Saint Tropez (San Torpete) era stata oggetto di scorribande da parte dei saraceni. Incursioni, quelle degli arabi, che ne avevano indebolito il tessuto sociale, fino a far divenire quel borgo un luogo quasi completamente abbandonato.
Nella seconda metà del XV secolo fu stabilito allora un accordo tra il signore del luogo e un nobile genovese, a seguito del quale una sessantina di famiglie di Genova vi si sarebbero stabilite con lo scopo di far rifiorire la vita del borgo. I genovesi crearono nuovi bastioni che aggiunsero a quelli esistenti, con lo scopo di rendere più sicuro il villaggio e far rifiorire i commerci. E in effetti, alla fine, le attività di pesca e commercio ripresero slancio. A testimonianza del contributo di quei genovesi, ancora oggi, su una delle torri di Saint-Tropez, la Tour Suffren, c’è una lapide che porta la seguente incisione: (trad.)  Ai piedi di questa torre edificata nel 980 da Guglielmo I Conte di Provenza, il 14 febbraio 1470 Jean de Cossa, Barone di Grimaud e Gran Siniscalco di Provenza, e Raffaele di Garezzio, gentiluomo genovese, firmarono l’atto di rinascita di Saint-Tropez”.
Questa vicenda di un borgo di mare francese e del ruolo dei genovesi nella difesa di un tratto di costa, ci porta a un’altra storia un po’ più indietro nel tempo.
Nel 1240 il Re di Francia decise di creare un porto a Aigues Mortes, nella Camargue. Nelle intenzioni del sovrano, quel porto doveva essere dotato di una serie di torri d’avvistamento e di un castello. A questo scopo, l’esecuzione di quei lavori fu affidata a un Boccanegra: Guglielmo, antenato di quello che è considerato il primo doge di Genova. Fu così, dunque, che Boccanegra divenne console e amministratore di Aigues Mortes, per conto del monarca francese. E ancora oggi, gran parte dell’imponente opera di architettura e ingegneria militare, realizzata da quel genovese, fa parte del paesaggio urbano di quel territorio francese.

Proseguendo verso la Spagna, superata la Catalonia, arriviamo all’estremo sud della comunità valenciana. Di fronte ad Alicante, troviamo come detto, Nueva Tabarca, isola che rappresenta idealmente il terzo anello della diaspora dei tabarchini. Nel corso dei secoli, le radici liguri degli abitanti di Nueva Tabarca si sono attenuate. Ma i retaggi del passato rimangono ancora intuibili nei cognomi delle famiglie del luogo. Non è infatti raro incontrare ‘el señor Parodi’.
Così come, più a sud, a Gibilterra, colonia inglese in territorio andaluso, a partire dalla metà del Cinquecento si registra una presenza genovese crescente, al punto da divenire – due secoli dopo – maggioranza dell’enclave britannica; e se a Nueva Tabarca si incontra ‘el Señor Parodi’, a Gibilterra ci si può imbattere in ‘Mister Canepa’.
È a causa del combinarsi di questi fattori storici se a Gibilterra si parla Llanito, una lingua che è un misto di inglese, di spagnolo, maltese, portoghese e di genovese. Ed è a causa di tutto ciò se la colonia inglese è anche un luogo dove, ancor oggi, c’è un edificio che porta l’insegna della Genoa House. E l’influenza di Genova sulla storia di Gibilterra si intuisce anche dal fatto che sullo Stretto si mangiano ancora la farinata – nota col nome di ‘calentita‘ – e le ‘panisse‘, la classica polenta con la farina di ceci.
Secondo lo studioso italiano Giulio Vignoli, lo Llanito era originariamente, nei primi decenni del XIX secolo, pieno di termini genovesi, solo in tempi recenti sostituiti da parole spagnole e inglesi. Sull’origine del nome – poiché non sembra logica la corrispondenza al castigliano llanito che sarebbe piccola pianura che proprio non ha nulla a che fare con la morfologia della rocca, la piú accreditata sembra proprio genovese: “a diminutive of the name Gianni: “gianito”, pronounced in Genoese slang with the “g” as “j”. During the late 18th century 34% of the male civilian population of Gibraltar came from Genoa and Gianni was a common Italian forename. To this day, nearly 20% of Gibraltarian surnames are Italian in origin.”

Ma a Gibilterra si parlava anche un dialetto genovese, il cosiddetto ‘genovese della Caleta’ o Catalan Bay, parlata appunto dalla comunità di genovesi molto presenti dal XVII secolo fino agli anni ’70 del secolo scorso.

Oltre Oceano

Lasciamo l’Europa, almeno geograficamente, e passiamo le Colonne d’Ercole, che per i genovesi, fin dal XIII secolo non furono certo un limite. Quel che gli storici solitamente non dicono, la differenza tra veneziani e genovesi, in ultima analisi, è che i veneziani andavano a oriente, i genovesi andavano dappertutto.

Alle Canarie, a Lanzarote, nella Playa de Papagayo possiamo ricordare la figura del marinaio che la scoprì e da cui ha preso il nome: il navigatore ed esploratore Lanzarotto Malocello da Varagine (Varazze) fu inviato in missione da Genova, sulla scia dei fratelli Vivaldi.

Abbiamo così aperto il capitolo delle acque oceaniche.

Quello di Cristoforo Colombo, come si sa, non fu un caso isolato. I rapporti dei genovesi col Nuovo Mondo sono attestati sin dalle prime spedizioni della flotta spagnola. Ma questo, del resto, non dovrebbe stupire. La Castiglia infatti, per evidenti ragioni geografiche, essendo priva di sbocchi sul mare, mancava di tradizione marittima e, nel periodo della scoperta del Nuovo Mondo, necessitava di gente esperta nella navigazione dei mari.
Il Cinquecento vede quindi i marinai genovesi presenti a Panama, in Messico e all’Hispaniola: tra gli estensori di una “carta de queja”, una lettera di rivendicazioni e reclami, firmata da alcuni Conquistadores, e indirizzata al sovrano spagnolo, troviamo uno Spinola, nome sulla cui origine non ci sono dubbi. Mentre il Seicento sarà il periodo in cui, il famoso scrittore spagnolo, Francisco Quevedo, dirà che l’oro della Conquista “Nace en las Indias honrado. Vien a morir a España, y es en Génova enterrado”: l’oro onorato nelle Indie, dall’America passava per la Spagna, e finiva per essere custodito per sempre a Genova. Con quell’oro, nella capitale della Liguria si costruì la Strada Nuova, sede dei palazzi delle più potenti famiglie di Genova.

Ma, naturalmente, se si pensa alla lingua genovese in America Latina, più che i Conquistadores – vengono in mente le ondate di emigrazioni verso il Rio della Plata, nell’Ottocento e primi Novecento.
Come è noto il genovese era presente (e in parte lo è tuttora) soprattutto in Argentina,
ma anche in Cile (Valparaíso, Viña del Mar), in Perù (Tacna, Callao).
E, in Argentina, non possiamo prescindere dalla Boca, il quartiere dei ‘Xeneizes‘ di Buenos Aires. Numerose testimonianze dell’epoca attestano che la presenza dei liguri a Buenos Aires fosse talmente forte da costringere anche gli altri emigrati italiani a imparare il genovese. Il genovese era dunque una specie di lingua franca dell’emigrazione italiana in questa parte del continente. Nel 1993, in occasione centenario del Genoa CFC 1893, fu allestita una mostra al Porto Antico che proponeva una rassegna di giornali argentini editi in genovese.

Ma il legame tra il genovese e la Boca è riuscito a percorrere i secoli, e a varcare il nuovo millennio, per giungere nell’era di internet. A riprova di questo, basta dare un’occhiata al sito ufficiale del Boca Juniors, dove all’opzione in spagnolo, e a quella in inglese, per la navigazione delle pagine web si può anche scegliere il genovese. Ed è per questo, per esempio, che a proposito della maglia del Boca (giallo-blu perché quando si dovette decidere che colori adottare qualcuno propose “quelli della bandiera della prima nave che entra in porto”. La nave fu svedese) nel sito della squadra di calcio argentina si può leggere che:
O mariolo do Boca o l’è ciù che ‘n sempliçe abito sportivo. O l’è o tezöo d’ogni tifozo ch’o ghe demanda a-i zugoei de sualo fin a in fondo. O l’è o mantello sacro lödòu da çentenae de cansoin. O simbolo ch’o l’unisce i xeneizes spantegae in gio a-o mundo”.
Traduzione per i non genovesi: “La maglia del Boca è qualcosa di più di un semplice abito sportivo. È il tesoro di ogni tifoso e pretende che i giocatori l’impregnino di sudore. È il mantello sacro lodato in centinaia di canzoni. Il simbolo che unisce i genovesi della Boca in giro per il mondo”.

Analfabeti e malavitosi

L’influenza della presenza ligure nella capitale argentina ha riguardato anche altre parlate dell’area di Buenos Aires. Mi riferisco in particolare al cocoliche e al lunfardo.
Il cocoliche era un misto di spagnolo e italiano parlato dagli emigrati. Il nome di questa lingua deriverebbe da un personaggio di fantasia che si rifaceva ad una persona reale: un operaio chiamato Coccoliccio, tipico emigrato meridionale che aveva poca padronanza del castigliano. Il legame di questa vicenda con Genova dipende dal fatto che il personaggio di fantasia sarebbe stato rappresentato per la prima volta da un attore comico in un circo gestito da due genovesi. Si trattava quindi di un linguaggio che si prestava a un uso parodistico e caricaturale, rispondente ai meccanismi a cui a volte si rifanno, per esempio, i comici del nord d’Italia quando vogliono ironizzare sulla figura dell’immigrato meridionale trasferitosi in una grande città dell’Italia settentrionale. Si pensi a Diego Abantatuono o ad Aldo, Giovanni e Giacomo.

Il lunfardo, invece, è un gergo legato a bassifondi e malavita, il cui lessico prende parole a prestito dal lombardo e dal piemontese, dal napoletano e dal genovese; parlata gergale che ha anche una sua dignità letteraria, testimoniata dal suo frequente utilizzo in poesie, testi e racconti. Ricordo che, molti anni fa, sfogliando un glossario di parole in lunfardo, casualmente trovai la definizione di “mina”, parola usata per indicare la fidanzata. Per completezza d’informazione, devo anche dire che a volte quella parola ha anche un’accezione stupidamente volgare. Ma in primo luogo significa ‘donna’, ‘fidanzata’, ‘ragazza’. Probabilmente oggi, nella nostra città, quel sostantivo non si usa più, ma nei quartieri popolari della Genova della mia adolescenza, se uno voleva sapere se avevi la fidanzata, ti chiedeva se avevi “la mina” oppure se eri “minato”, usando quindi proprio la stessa parola che si era soliti usare nei barrios della capitale argentina. Del resto, in Lunfardo per dire “Non ti do un bel niente” si dice: “No te doy un belìn” e lo stupido “es un belinon”, così come uno che è povero è uno “mishio” (dal genovese ‘miscio’ : senza soldi), mentre uno ricco è un “bacàn”, che in genovese vuol dire ‘padrone’.

I camoglini in mezzo all’oceano

Per finire, se non abbiamo, che si sappia, qualche reminiscenza di lingua genovese in Africa, abbiamo almeno qualche cognome.
Nell’ottobre del 1892 un brigantino genovese, con il carico in fiamme, naufragò nei pressi dell’isola Tristan da Cunha, in mezzo all’Atlantico, uno dei luoghi più distanti dal resto del mondo. La nave Italia, di proprietà genovese, era partita il 26 agosto del 1892 da Greenock, un porto scozzese vicino a Glasgow, e lì aveva caricato carbone. Il 28 settembre il nostromo notò un filo di fumo uscire dalla stiva. Il primo ottobre apparve chiaro che il carico stava bruciando, anche se il fuoco doveva essersi sviluppato molto all’interno. Si sarebbe potuto lanciare l’allarme ad altre navi, se solo ne fosse passata una vicino, ma l’Italia non incrociò nessun bastimento. Il comandante decise allora di mantenere la rotta che passava in prossimità di Tristan da Cunha, sperando di riuscire ad attraccare sull’isola.
Ma nella notte del 2 ottobre nella stiva del brigantino si sentì una forte detonazione. Nell’eventualità di una evacuazione d’urgenza furono messi in atto anche i preparativi per abbandonare la nave, appendendo le lance di salvataggio sulle fiancate e preparando i cannotti. Il cielo completamente coperto e il tempo nebbioso rendevano difficile l’osservazione astronomica, fino a quando una schiarita, permise di stimare la distanza che separava la nave da Tristan da Cunha, era un numero di leghe marine equivalente a circa quarantacinque o cinquanta chilometri.
Si calarono le lance, le si riempirono con delle provviste e l’intero equipaggio poté sbarcare su una piccola baia. Ci vollero mesi prima che un bastimento fosse in grado di accogliere i marinai genovesi e portarli a casa. Per tutti quei mesi l’equipaggio del brigantino fu ospite degli abitanti di Tristan da Cunha. Poi finalmente, il 26 gennaio del 1893, una goletta inglese li portò a Città del Capo, e da lì un vapore inglese li portò alle Canarie dove si imbarcarono su un vapore dell’armatore genovese, proprietario del brigantino affondato, che finalmente li riportò a casa.
Ma due marinai camoglini avevano deciso di non fare rientro e di restare lì per tutta la vita. Ed è per questo che oggi a Tristan da Cunha, isola di circa trecento anime, molti abitanti del posto portano i cognomi dei due marinai: Repetto e Lavarello.

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  1. Il termine maonà deriva dall’arabo Mà Ounab (mutua assistenza) ed entra nel genovese a indicare una ‘compagnia commerciale’. La maonà di Chio all’epoca (1362) era retta dalla famiglia dei Giustiniani, che per certi aspetti prefigurava il concetto moderno di una joint venture.
  2. A proposito dei Lomellini, a Genova c’è il detto “O Marcheise Lömellin o l’à averto o pòrtego!” per dire di chi si vanta di aver compiuto un atto eroico o una gran concessione, che in realtà è un atto modesto. La storia racconta che nel 1747 durante una rivolta i popolani minacciavano di prendere a cannonate il Palazzo Ducale. Il Senatore Giacomo Lomellini, aprì allora il portone e si pose davanti al cannone dicendo “se volete sparare dovete colpire prima me”. Ovviamente la gente se ne andò mugugnando e nacque il detto.

* Massimo (Max) Prati, nasce a Genova nel 1963 dove si è laureato alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, specializzazione in Scienze dell’Informazione e della Comunicazione Sociale e Interculturale, con il massimo dei voti. Vive in Svizzera dal 2004, dove lavora come insegnante. Autore di racconti, ha pubblicato: “Nella Tana del Nemico”, inserito nella raccolta dal titolo, “Sotto il Segno del Grifone”; “I Racconti del Grifo. Quando parlare del Genoa è come parlare di Genova”; “Gli Svizzeri Pionieri del Football Italiano”, un lavoro di ricerca storica. E il più recente “Rivoluzione Inglese. Paradigma della Modernità”, Mimesis Edizioni, 2020. È anche autore di numerosi articoli, di carattere sportivo, storico o culturale, pubblicati su differenti blog, siti, riviste e giornali.

** Marco Francesco Picasso, è nato a Genova dove si è laureato in scienze geologiche  nel 1965. Vive tra Lesmo in Brianza e Camogli. Giornalista e scrittore – editore del sito che ospita questa pagina – ha recentemente pubblicatoIl Segreto dei dieci laghi – romanzo andino” Di Marsico Libri, Bari – aprile 2020.