Per la serie “Il taccuino del tipografista” pubblichiamo questo secondo contributo del nostro esperto storico e appassionato che con la sua verve riesce a trasmetterci tutta la passione per l’arte nera. Giorgio Coraglia è uno dei maggiori conoscitori ed esperti di Linotype e linotipia. Ricordiamo qui il primo degli articoli pubblicati per questa serie sulla Paniconografia, oltre ad altri articoli che potete trovare nella sezione Cultura, “Amici di Piombo”.
di Giorgio Coraglia
Dapprincipio fu il legno. È certamente del 1423 il San Cristoforo xilografato (xilon legno, gràfo scrivo) così come in quel tempo venivano intagliate nel legno le carte da gioco, mentre pare che il nostro Gutenberg sia rimasto impressionato dalla stampa tabellare della grammatica latina di Elio Donato, il libro di scuola più diffuso in Olanda nel XV secolo: forse queste tavole in legno, che mostravano l’incisione del testo fecero scattare l’idea di estrarre le singole lettere e farne così tanti caratteri mobili.
Difatti i primi tipi gutenberghiani furono in legno.
Johannes Gutenberg non va solo ricordato per i tipi mobili, ma bisonga sapere che si deve proprio a lui l’idea di costruire una macchina da stampa… di legno. La commissionò nel 1444 a Conrad Saspach, un falegname di Magonza, che ne vide soltanto una strana variazione di uno strettoio da vino a vite. Sembra che l’artigiano non fosse molto coinvolto dal progetto del maestro che considerava quell’arnese la rivoluzionaria macchina per la “scrittura artificiale”. Quel torchio non doveva certamente schiacciare l’uva per farne vino, ma spremere le sorgenti del sapere per ricavarne innumerevoli rivoli di conoscenza.
Il primo torchio era una macchina primitiva, molto lenta nei movimenti, l’aspetto era molto ingombrante e doveva essere anche fissato al soffitto poiché doveva sopportare gli sforzi di torsione e pressione che facevano “gemere” il torchio: questo gemito era provocato dalle corde o nervi di bue che fissavano la vite di pressione alla platina.
L’inchiostrazione (l’inchiostro era preparato da Gutenberg e questa fu un’altra sua invenzione) della forma tipografica, che andava poi fatta scorrere sotto la platina del torchio, era una funzione alquanto complessa affidata a due mazzi o tamponi, manici di legno per l’impugnatura e la parte inferiore rigonfia di crine e filacce di lane, ricoperta con cuoio che veniva caricata di inchiostro, poi lo stampatore provvedeva a strofinare i due mazzi per rendere uniforme il velo d’inchiostro.
Allora il torcoliere – che “veniva chiamato anche orso per la goffa monotonia dei movimenti nel tirare la bozza” ricorda Pietro Bàrbera – doveva dare due colpi di spranga per imprimere il foglio che non poteva essere di grandi dimensioni. Nel secondo volume del “Trattato di cultura generale nel campo della stampa” Giovanni Maria Pugno racconta che Gutenberg per stampare i 185 volumi di 1282 pagine ciascuno della Bibbia a 42 righe si servì di sei torchi e di altrettanti torcolieri che lavorarono per almeno un anno e due mesi. La produzione era considerata sorprendente se comparata alla lentezza del lavoro degli amanuensi.
Per vedere una vite di ottone sostituire quella in legno si dovette attendere il 1550; nel 1564 il torchio adottò il timpano (che portava il foglio da stampare) e la fraschetta (una cornice che proteggeva il foglio dallo sporco dei margini); nel 1620 un contrappeso per alzare il piano impressore caratterizzava il torchio olandese; François Didot nel 1753 costruì il primo torchio a un colpo solo e nel 1771 Benjamin Franklin presentava all’Esposizione di Filadelfia il suo torchio.
Ma la prima vera rivoluzione del torchio arrivava all’inizio del XIX secolo quando il londinese Charles Stanhope realizzava nel 1809 il torchio in ferro, che permetteva la stampa di 2000 fogli al giorno servendosi di due operai (il torcoliere e l’aggiunto).
Nel 1811 Friedrich Koenig stupì il mondo della stampa con la costruzione della prima macchina ad arresto del cilindro e dispositivo di inchiostrazione. Con l’aiuto tecnico di Andreas Friedrich Bauer, che aveva conosciuto nel 1807, impiantò al Times di Londra una nuova macchina a due cilindri di pressione che il 28 novembre 1814 stampò ‘ben’ 500 copie all’ora del quotidiano. I due tornarono in Germania dove nel 1818 fondarono la Koenig & Bauer, oggi più nota come KBA, e costruirono la macchina all’epoca più veloce da 2400 impressione all’ora. Da quel momento il progresso e la velocità di stampa progredirono velocemente.
Lunga vita al torchio
Ma il torchio tipografico non fu subito abbandonato, anzi la fabbricazione di questo antico strumento da stampa continuò sino alla fine del secolo XIX. Lo testimonia James Clough, docente al Politecnico di Milano, incaricato di censire per l’Associazione italiana dei musei della stampa e della carta i torchi ancora esistenti in Italia. L’elenco del giugno 2008 raccoglieva un centinaio di queste macchine sparse per lo più nei vari musei e raccolta private. Solo quattro sono in legno (tre del Settecento e il quarto del 1818), gli altri (due dozzine di torchi Stanhope e una cinquantina di Albion con le artistiche “chimere”) sono stati prodotti da aziende italiane dal 1840 al 1900.
Nel Museo Civico della Stampa di Mondovì (CN) ne sono custoditi ben cinque. Due Stanhope con la base a croce in legno: uno del 1844 dell’Amos Dell’Orto di Monza che è servito ai ragazzi di Don Bosco ospiti nella prima Scuola tipografica piemontese fondata a Torino nel 1860: questo torchio, in odore di santità, è stato appena restaurato da Antonio Scaccabarozzi ed è perfettamente funzionante. L’altro, di grande formato, è della seconda metà del XIX secolo. Ha delle eleganti zampe di leone invece lo Stanhope di Giò Pedrinola & Arbizzoni (Monza) datato 1864.
Meritano ammirazione anche i due torchi Albion dell’Amos Dell’Orto, uno di formato piccolo datato 1870 e l’altro del 1874 di grande formato che ha fatto il suo dovere (udite, udite) sino al 2001 nella Tipografia Moderna del comm. Arnaldo Belloni di Nizza Monferrato (AT), diretta dalla figlia Marisa che, cessata l’attività, ha donato i macchinari al museo monregalese. Eravamo nel terzo millennio, lontani cinque secoli e mezzo dal primo torchio gutenberghiano, ma non c’è da stupirsi: quando si trattava di piccole tirature (sembra che il vocabolo “tiratura” abbia origine proprio dal movimento del torcoliere quando tirava la leva per abbassare la platina di pressione) era molto più pratico adagiare la forma del manifesto o della locandina sul piano del torchio, si faceva scorrere il rullo inchiostratore sul rilievo dei caratteri, si abbassava il timpano su cui era poggiato il foglio, scorreva il carrello con la composizione sotto la platina, l’orso dava un colpo di leva, girava la manovella per far ritornare il carrello, rialzava il timpano et voilà, la stampa era servita e profumata d’eau d’imprimerie. Inutile e dispendiosa la preparazione di qualunque macchina tipografica superveloce per un pugno di fogli.
Raccontare il torchio tipografico non rende reale la sua bellezza, perciò val bene una visita nei templi dell’arte nera…
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