MetaÃlice vi propone l’intervista del direttore di MetaPrintArt, Marco Picasso, a Marco Pinti, autore del romanzo Il Periodo Ipotetico, “Un travolgente romanzo da destinare ai posteri. Scritto con la maestria del folli” (Pietrangelo Buttafuoco).

Ho incontrato e conosciuto casualmente Marco Pinti, comunicatore e copywriter, a Edita 2022 a Milano.
Vagando tra una quantità di tavoli e una miriade di libri esposti, non so perché scelsi “Il Periodo Ipotetico”, tra i tanti sul tavolo di Edizioni Effetto. Certamente fu il Caso a spingermi a prenderlo in mano, a soppesarlo (sí, proprio cosí, date le quasi 600 pagine). Non la copertina, elegante, ma non di particolare effetto con le sue quattro piume colorate che nulla indicano del contenuto. Forse la semplice epigrafe sul retro “Non c’è niente di piú pericoloso che sentirsi al sicuro”. Forse la presenza dell’autore dallo sguardo quasi magnetico, al quale chiesi spiegazione sul titolo: “Un periodo ipotetico che potrebbe capitare veramente”, mi disse.

Marco F. Picasso – Mi considero un lettore forte. Ma ultimamente sono tornato ai classici, perché la cosiddetta letteratura contemporanea che furoreggia mi annoia. Sembra quasi una corsa a copiare e incollare, una sorta di déjàvu che imperversa. La mole del libro mi suggeriva di attendere il momento propizio per affrontarlo. E questo è venuto nell’agosto 2023. Letto in meno di una settimana, tanto da aver subito sentito la necessità di intervistare l’autore, con cui abbiamo in comune la professione e la passione per il trekking.
Leggere in pochi giorni un volume di quasi 600 pagine può avere due significati: si saltano molte parti, oppure ti prende da non poterlo lasciare. Per me è stato il secondo caso. Ma questo è il tuo primo romanzo. Giovane, ma non di primo pelo, un quarantino direbbe Camilleri. Ma come scrittore? Mi hai detto che rivendichi con fierezza il tuo essere “un dilettante che si diletta” e un “principiante che principia”.

Marco Pinti – Diciamo che al cospetto della scrittura mi sento un po’ un bambino, un autore bambino. D’altronde, dal giorno in cui ho scritto la prima riga della primissima bozza sono passati sei anni, giusto il tempo di indossare il grembiule di prima elementare. 

Direi che quanto a comunicazione vai forte, leggendo il tuo romanzo. Le idee non mancano, la verve neppure, e lo stile va da sé che è quello del copywriter. Ma come è nata l’idea? Nei ringraziamenti fai riferimento alla sensazione di meraviglia e insieme di irritazione, dopo aver letto “Guerriglia” di Laurent Obertone [ed italiana 2017 – Signs Publishing – ndr]. Meraviglia e irritazione. In che senso? Allora viene spontaneo chiederti, cosa c’è di suo e cosa di tuo?

La meraviglia la trovo nella capacità di costruire un’apocalisse dove l’umanità non ha bisogno dell’alibi di un’invasione aliena, di una pandemia o degli zombie per giustificare il proprio sfacelo. Ce la caviamo benissimo da soli, purtroppo. L’irritazione nasce dal fatto che Obertone non sembra interessato a conoscere i suoi personaggi: si accontenta di figurine piatte, allegorie moralistiche, lontanissime da quella matassa di incoerenze che è la vita di ognuno di noi. Lui tratta la pagina scritta come un bersaglio del tiro a segno. Io come una serratura da scassinare. 

E lo fai bene: i tuoi personaggi sono analizzati in profondità, il lettore vive con loro. Quando ti chiesi del titolo la tua risposta fu: “Un periodo ipotetico che potrebbe esserci veramente”. E in effetti è piuttosto allarmante. Vuoi spiegarci perché?

Purtroppo c’è poco da spiegare, basta accorgersi di vivere in un’anomalia della Storia – ottant’anni di pace – e a strapiombo su una geografia che nel frattempo non ha smesso di mappare nuovi conflitti in tutto il mondo. Dovremmo accorgerci di questa eccezionale fortuna, invece di chiamarla “normalità”. 

Ho voluto intitolare questa intervista con la frase che ricorre in alcuni punti salienti e che poi in chiusura è un po’ il testamento di Ettore, uno dei protagonisti principali, un interessante deputato, persino simpatico, il che è quasi un ossimoro.

Più che in un ossimoro, Ettore galleggia in un equivoco. Fa parte di una categoria di cui si favoleggia una vita piena di privilegi e di relazioni esclusive, ma non è affatto così. Spero si percepisca, in Ettore, l’ansia di chi si considera sempre più piccolo delle circostanze in cui si trova. Allo stesso modo mi auguro che conoscerlo da vicino, con tutte le sue ingenuità e approssimazioni, possa indurre il lettore a ripensare alcuni stereotipi.  

Mi dà l’impressione che ci sia qualcosa di personale in questo. O sbaglio?

Mi piace pensare che esista, oltre la cortina della cosiddetta realtà, un “luogo non luogo” dove le storie attendono di essere raccontate. Da questa prospettiva l’autore è soltanto colui che si incarica di andarle a cercare, poi di sgombrare e ripulire la strada, nel mio caso il sentiero, per trasportarle nelle pagine di un libro. Forse è vero che durante il viaggio qualcosa di chi scrive resta impigliato nei personaggi: schegge di ricordi, sensazioni, illusioni, scorci di felicità, tagliole di rimorsi, ma ho il sospetto che non si tratti di frammenti strettamente personali. Al contrario, se luccicano nella corrente di una storia, probabilmente è perché hanno carattere universale.   

Il romanzo descrive gli accadimenti di alcune giornate nell’arco di due mesi o poco piú. Stesso tempo in luoghi diversi e con protagonisti molto differenti tra loro, tanto che potrebbero essere tre o quattro romanzi, ma di tutta la storia ne hai fatto uno solo. E tutto fila liscio. Si immagina che prima o poi questi personaggi cosí diversi dovranno incontrarsi. E qui sta l’arguzia e la capacità dell’autore a tenere il lettore inchiodato alle pagine. Da scrittore dilettante, lo trovo non semplice da rendere, ma tutto scorre “come acqua nell’acqua” per prendere una delle frasi ricorrenti di una protagonista particolarmente inquietante. Come hai avuto l’idea e, soprattutto, come hai potuto amalgamare il tutto in modo cosí lineare e coinvolgente?

A questo genere di domande Andrea G. Pinketts rispondeva con la formula: “Io guido nella nebbia”, nel senso di scrivere senza avere in testa una trama già definita. Nel mio caso è forse più giusto pensare ai segnavia di montagna: quando ne scorgi uno, non sai dove troverai il successivo, se su una pietra, su un tronco o sul muro di una baita, ma sai che ci sarà. Bisogna solo continuare a camminare, continuare a cercare, continuare a fidarsi.

Un bellissimo paragone per un appassionato di sentieri di montagna come me. Quello che mi sorprende sono le descrizioni, dettagliate alla maniera di James Joice, che se nell’autore irlandese a volte sono un po’ noiose qui non viene mai voglia di saltarle. Sono tante, ma in particolare mi ha sorpreso la lunghissima (piú di tre pagine) e approfondita descrizione di come Giacomo si appresta a tirare un calcio di punizione in una partitella parrocchiale: non è necessaria nella trama, ma serve, credo, a scavare nella psicologia del personaggio. E non solo in questo, ma anche di chi assiste da fuori. Una bella trovata, che si ripete spesso. Gioca piú il tuo essere un copywriter o emerge una tua visione filosofica e psicologica dei personaggi?

Ringrazio per il complimento, ma dal confronto con Joice mi sottraggo con una bella espressione piemontese: “Esagerumanèn!”, pronunciata tutta in un fiato, che significa: “Non esageriamo!” (ma il punto esclamativo è un’aggiunta longobarda). Quanto alla partitella sono molto contento di questa domanda, perché la considero uno dei passaggi rivelatori del genere di romanzo che ho provato a scrivere. Una partita di calcetto, le smorfie allo specchio nel lavarsi i denti, dar da mangiare al gatto di un amico, sedersi sul pavimento a osservare il lavoro di un artigiano, sono solo alcuni dei momenti in cui il tempo della narrazione si dilata e il lettore può godersi il piacere della compagnia del personaggio. Più che una scelta stilistica, è stata un’esigenza: io per primo volevo abitare il mondo che stavo scoprendo, sentirne il calore, interrogarne la luce, e condividerla con il lettore.

Mi fai venire in mente l’IA applicata alla narrativa. Cosa ne pensi?

Infatti. C’è poi un tratto non meno importante, soprattutto da quando l’irruzione degli algoritmi ha messo in crisi l’immaginazione umana su un terreno che pareva inviolabile. L’algoritmo sa avvalersi della combinazione matematica di un numero esorbitante, ma non infinito, di variabili, con il risultato di generare storie sempre più simili alle macchine che le hanno progettate. Dall’altra parte c’è l’istinto irriducibile, umano e solo umano, forse troppo umano, di cercare qualcosa di diverso, qualcosa che non sappiamo dire, ma di cui vediamo il riverbero in ciò che al mondo esiste di più insolito, enigmatico, e impreciso. A ognuno la sua strada. Io preferisco i sentieri…

Ringrazio Marco e ricordo che l’intera percentuale sulla vendita dovuta all’autore viene devoluta alla Casa del Giovane di Pavia, una comunità per ragazze e ragazzi che hanno avuto problemi di tossicodipendenza.

E MetaÃlice ringrazia entrambi per averci presentato un “bravo” autore che possiede una non scontata e sana dose di umiltà.

Buona scrittura!

Il Periodo Ipotetico di Marco Pinti – Edizioni Effetto

Il romanzo
Ultimamente sono tornato ai classici, perché la cosiddetta letteratura contemporanea che furoreggia mi annoia. Sembra quasi una corsa a copiare e incollare, una sorte di déjavue che imperversa. A parte le sintassi zoppicanti, i pensieri da social che dominano i dialoghi e le penose introspezioni dei protagonisti. Oltre ai copia-incolla da wikipedia e altri testi.

Quando un anno fa partecipai a Edita con gli Autori Erranti, con alcuni autori avevo fatto uno scambio con il mio Segreto dei Dieci Laghi. Tornando a casa con una manciata di libri dovevo decidere da quale iniziare.
L’unico che decisi di mettere da parte in attesa di un lungo periodo di tempo libero era “Il Periodo Ipotetico” di Marco Pinti, frenato dalle quasi 600 pagine. Ora l’ho divorato. 

Il romanzo si svolge in giornate, dal venerdì 13 luglio al venerdì 21 settembre. Evitando di fare spoiler, basti dire che potrebbero essere tre o quattro romanzi: inizia con accadimenti di personaggi, o coppie di personaggi, che come si intuisce dovranno prima o poi incontrarsi e incrociare le loro esistenze, sullo sfondo di disordini sociali che dalla Francia si estendono in Italia. Personaggi di sicuro interesse, dal deputato di destra, amico di una ‘zecca’ dei centri sociali, con la sua famiglia modello e il contorno dei colleghi politici una strana maestrina che alterna la sua vita tra la sua provincia emiliana e i Paesi del terzo mondo, con il suo fratellone protettivo, a due ragazze in vacanza, una l’opposto dell’altra.
Oltre a una trama avvincente e ben svolta, sorprende la capacità di accurate e descrizioni dettagliate all’inverosimile, che tanto ricordano James Joice, ma certamente qui piú avvincenti. Descrizioni anche di fatti banali, ma che servono ad alleggerire un tema complesso che se non fosse trattato con una buona dose di ironia, potrebbe stancare. Persino le tre pagine dedicate a descrivere la battuta di un calcio di punizione in una partitella parrocchiale (e il parroco era infatti l’arbitro) incollano il lettore, come gli spunti piú impegnati, ma sempre proposti con una sorta di leggerezza pur negli approfondimenti politici, sociali, introspettivi di ciascun personaggio.
Alcune battute sono talmente azzeccate da far pensare che siano prese da un ipotetico ‘manuale del perfetto scrittore’: sono frasi da sottolineare e da rileggere di tanto in tanto.
E alla fine, lo stesso romanzo, sarà da rileggere, perché una volta seguita e scoperta la trama e l’esito, bisogna ritornarci per goderne lo stile.