Tra le regole tipografiche per la composizione e per pubblicare un libro, la scelta dell’accento è fondamentale, e purtroppo da alcuni non correttamente seguita.

Dal segnaccento alle date, dalle divisioni delle parole in fin di linea alla giustificazione delle linee, dalla preparazione del manoscritto all’uso del tondo – corsivo – maiuscoletto e alcune notizie sul codice ISBN. Ne parliamo in alcuni articoli, iniziando dal segnaccento.

Gli accenti

Prima di cominciare a parlare di accentazione, facciamo una precisazione: distinguiamo tra accento tonico e accento aperto o chiuso (grave o acuto), chiamato accento grafico, ma che potremmo definire accento di pronuncia o tonale.

In italiano l’accento tonico si usa di rado e non obbligatoriamente, per distinguere pronunce differenti di parole graficamente uguali, ma di diverso significato, ad esempio àncora da ancora, capitano da càpitano, ecc.

Se solo la “e” distingue nello scritto tra “é” e “è”, anche la “o” in alcuni casi dovrebbe portare l’accento grafico, ad esempio per distinguere: porci da pòrci, nel primo caso l’accento si tralascia anche se dovrebbe essere corretto scrivere pórci nel caso del verbo. Analogamente, per distinguere pésca da pèsca e tante altre. In genere si tralascia perché il significato della parola si comprende dal testo senza problemi.

Una parentesi. L’importanza nel distinguere tra accento tonico e di pronuncia la vediamo nell’errore comune e diffuso che si fa pronunciando termini e nomi stranieri: il caso più attuale è quello del presidente dell’Ungheria, Orbán: in questo caso l’accento NON è tonico. In ungherese, in tutte le parole l’accento tonico cade sulla prima sillaba (come nelle lingue ugrofinniche e quindi anche in finlandese) quindi si deve pronunciare Òrban e non Orbán. La “á” con accento grafico acuto è una vocale a sé stante e va pronunciata a metà strada tra a e o.

Premessa alla norma

Il segnaccento obbligatorio nell’ortografica della lingua italiana – Norma tecnica UNI 6015-67

Entrando nel merito delle regole tipografiche, va fatta una premessa sul segnaccento.
La casa editrice Einaudi utilizza un segnaccento diverso dalla regola UNI italiana del 1967, mettendo l’accento acuto sulle “i” e sulle “u” nella parole tronche. Per esempio: cosí, sí, piú, virtú, cui si aggiungono i giorni della settimana dal lunedí al venerdí. Non si tratta di un errore [il direttore di MetaPrintArt lo usa e lo raccomanda – ndr].
Per spiegare questa usanza, che ha una sua logica, bisogna fare una premessa: in base a come apriamo o chiudiamo la bocca per pronunciare le vocali, “i” e “u” non sono mai aperte ma sempre chiuse. Per rispettare quindi la reale pronuncia delle parole ha un senso scegliere di scriverle con l’accento acuto. Si tratta di una scelta minoritaria che per alcuni è un vezzo, ma non è un errore né una scelta immotivata. Rappresenta una decisione logica, frutto di una corrente di pensiero (che noi condividiamo).

La norma tecnica sul segnaccento obbligatorio, pubblicata nel 1967, unifica il segnaccento obbligatorio per le “i” e le “u” toniche finali al simbolo dell’accento grave già d’uso corrente per le “a” e le “o” toniche finali (cioè quando va posto l’accento sull’ultima vocale, si deve scrivere sempre “à”, “ì”, “ò”, “ù”), mentre mantiene la distinzione tra “è” ed “è” finali). Questa scelta fu fatta semplicemente perché le macchine per scrivere avevano questi accenti, e non si potevano cambiare i tasti.
[Abbiamo interpellato in proposito l’Accademia della Crusca, ma non ci ha risposto, al momento – ndr]

Ritornando alla norma UNI, il segnaccento o segno di accento, serve a indicare in modo esplicito la vocale tonica, per esempio:
andrà, trovò, temé, città.
Nella lingua italiana l’accento grafico può essere grave (da sinistra verso destra) o acuto (da destra verso sinistra). Purtroppo a scuola non lo si insegna.

Quando è obbligatorio

Su alcuni monosillabi, per distinguerli da altri monosillabi che si scrivono con le stesse lettere, ma senza accento:
ché (poiché) per distinguerlo da che (congiunzione o pronome)

dà (indicativo presente del verbo dare) per distinguerlo dalla preposizione: da e dall’imperativo di dare: da’.

Eccezione è fa, mai con accento (come si vede spesso), sia che indichi il verbo o la nota musicale.

dì (imperativo di dire) e dì (giorno) per distinguerli dalla preposizione: di

è (verbo) per distinguerlo dalla  congiunzione: e

là (avverbio) per distinguerlo da: la con valore di articolo, pronome o nota musicale (nota do è sempre senza accento sia per il verbo, sia per la nota musicale.

lì (avverbio) per distinguerlo dal pronome.

né (congiunzione negativa) per distinguerlo dal pronome e dall’avverbio: ne.

sé (pronome tonico) per distinguerlo da se (congiunzione condizionale; e qui va fatta una precisazione: il pronome sé è atono (se stesso senza accento) nella proposizione se stesso (anche se oggi viene ammesso l’accento), mentre sé stante si scrive con l’accento.

sì (affermazione) per distinguerlo dal pronome: si, come dalla nota musicale.

tè (pianta, bevanda) per distinguerlo da te (pronome). Si vede anche scritto erroneamente thé o l’antiquato tea, preso direttamente dall’inglese.

Il segnaccento, nei casi in cui è obbligatorio, è sempre grave sulle vocali:

à,ì,ò,ù (con la precisazione indicata sopra in cui possono avere accento acuto í e ú).

Sulla è, il segnaccento obbligatorio è grave se la vocale è aperta, è acuto se la vocale è chiusa:

è sempre grave sulle seguenti parole:

ahimè e ohimè, caffè, canapè, cioè, coccodè, diè, è, gilè, lacchè, piè, tè; inoltre sulla maggior parte dei francesismi adattati, come: bebè, cabarè, purè, ecc.; e sulla maggior parte dei nomi propri come: Giosuè, Mosè, Noè, Salomè.

Questo è un fatto strano perché le parole di origine francese si dovrebbero pronunciare con accento acuto: gilé (da gilet)

é acuto sulle seguenti parole:

ché (poiché) e i composti di che (affinché, macché, perché, ecc.), fé e composti: affé, autodafé, i composti di re e di tre (viceré, ventitré), i passati remoti (credé, temé, ecc., escluso diè), le parole mercé, né, scimpanzé, sé, testé.

Anche per la “o” si possono distinguere i due timbri (aperto o chiuso) con i due accenti (grave e acuto) ma in questi casi l’uso dell’accento è facoltativo, per esempio: còlto (participio passato di cogliere) e cólto (istruito).

Ma attenzione: mai scrivere (purtroppo lo si vede spesso in giro). Un po’ con apostrofo e non accento, mentre il fiume non ne ha bisogno.

Esiste anche l’accento circonflesso, non citato nella norma UNI, ma che può essere usato sulla “i” al posto della doppia “ii” se l’accento tonico non cade sulle i. Se per esempio in un romanzo si volesse riportare un dialogo dei tempi passati (neppure troppo) si può scrivere: odî (plurale di odio) ma udii e non udî.

Per finire, se si devono scrivere termini stranieri, si devono usare gli stessi accenti di quella lingua. Per esempio in spagnolo sempre con l’accento acuto.