Un editore storico in provincia di Torino e la sua lunga esperienza nel settore, oggi come quando non esistevano ancora internet e il print on demand, quando la carta, la stampa di qualità e la cura del dettaglio erano il biglietto da visita della buona editoria.

I tempi cambiano, ma teniamo sempre un occhio al passato.
MetaAlice è in compagnia di Cesare Verlucca. Ebbi il piacere di incontrarlo quando ero una laureanda alla facoltà di Scienze e Arti della Stampa a Torino, invitato in aula da Alessandro Gusmano, professore di Tecniche editoriali.
In quella circostanza riuscì a far vibrare la mia scintilla raccontandoci dell’attività di editore, in un momento in cui mi trovavo ancora anni luce lontana dalla sua esperienza. Lo intervistai per inserire il suo catalogo in una tesi ambiziosa, priva di bibliografia. È trascorso del tempo da allora, ma quasi ogni anno ci incontriamo al Salone Internazionale del Libro di Torino scambiando quattro chiacchiere sul mondo editoriale che evolve, e verso il quale abbiamo un attaccamento alla tradizione e alla buona editoria.

Vivi come dovessi morire domani. Impara come se dovessi vivere per sempre”, diceva Gandhi. Questa frase chiude il suo libro, Una storia di carta. Vita di un editore, frase a cui lei, Cesare, attinge da una vita. Agire come se il traguardo finale fosse così lontano da non poterne intravedere i contorni e, al tempo stesso, come se l’oggi fosse l’ultimo giorno. È un concetto semplice e chiaro che mi conduce alla prima domanda: da quale esperienza è partita la sua carriera per indirizzarla a creare una casa editrice con Gherardo Priuli, quella che conobbi trent’anni anni fa, la Priuli & Verlucca, editori?

«Qualsiasi esperienza che diventi famosa, parte spesso da fatti banali.  Gherardo lavorava in una tipografia da lui diretta; io ero in Olivetti nel settore commerciale delle macchine contabili, per cui andavo spesso da lui per far stampare dei documenti, ed eravamo diventati molto amici.   Ma io frequentavo fin dall’infanzia un altro carissimo amico che aveva un anno più di me, Cesare Ottin Pecchio (diventato poi mio cognato). Era un ottimo scrittore, e aveva da tempo realizzato un bel volume, I samaritani della roccia, per il quale stava cercando un editore, e io gli stavo dando tutto l’aiuto possibile, ma non c’era verso di rintracciare un’anima santa che si decidesse a soddisfare le nostre richieste.  Un giorno Priuli mi invitò a casa sua, dove sua moglie aveva preparato un’ottima cena; e mentre pranzavamo raccontai, molto amareggiato, quanto difficile fosse arrivare al traguardo della stampa di un volume che mi era anche molto piaciuto. Mi ascoltavano entrambi con attenzione, e l’amico Gherardo, a un certo momento, venne fuori con una frase che diventò l’aspirante battesimo del nostro lunghissimo avvenire. “Il tuo libro… vuoi che lo stampiamo tu e io?”
E quel meraviglioso detto, che avrebbe anche potuto essere uno scherzo, è stato invece l’incipit di un lunghissimo domani vissuto in Canavese, in Piemonte, in Italia, in Europa e in buona parte del mondo. Eravamo nel 1971, a giugno di quell’anno fondammo la società.»

– Si potrebbe pensare che le opportunità migliori nascano per caso seguendo, ed è ciò che mi intriga molto, il destino, l’indirizzo per cui siamo nati.  Sono certa nell’asserire che Cesare Verlucca non sia una persona comune. Qual era il suo progetto quando ha deciso di scendere in campo con Priuli? Non la spaventava dover iniziare da zero un mestiere così diverso da quello di partenza?

«Signora mia, a pensarci, mi vien che ridere. Eravamo nel 1971, e io avevo 44 anni: dovessi descrivere quello che ho fatto dai 17 anni ad allora…  Un’autobiografia l’ho scritta poi, in cui c’è di tutto e di più: dalla conduzione dell’azienda dello zio, dopo che lui era partito per il Perù con la famiglia; alla vincita di un’occupazione in RAI con lunghe prospettive, scadute inopinatamente per la mia chiamata a militare e l’invio al CAR di Palermo; all’assunzione in Olivetti, direttamente dal grande Adriano; alla creazione di un villaggio di 24 ville nel centro di Ivrea.
Ma, di bene e male incrociati, ne ho avuto per tutta la vita.»

– Bisogna rischiare è la formula? Credere in ciò che si fa e provarci, sempre, come dice una canzone pop di Pink: Try, try, try.
Il primo amore è stata la montagna e, operando nelle verdi valli del Canavese, era a portata di mano poiché vi circondava. Ha molto influito sulla nascita di alcune collane che ancora oggi sono ricche di fascino, come la collana 360° e i Quaderni di cultura alpina, per citarne alcune, che hanno richiesto competenza e professionalità. Due termini per nulla scontati. Circondarsi delle persone giuste, di veri professionisti, è la carta vincente?

«Indiscutibilmente sì. Ma ancora più avvincente è stato cercare altre idee con altri editori, e unirsi a loro per sfruttarle tutti insieme appassionatamente. E mi commuovo ancora oggi se penso al mitico Club Prima Vera, inventato nei soggiorni alla Frankfurter Buchmesse, dove il nome della compagnia derivava dalle tre lettere iniziali dei nostri cognomi Priuli & Verlucca ed era da me diretta, per sfruttare l’originale trovata del pittogramma, che riunì per anni un gruppo di editori. Basti pensare alla loro provenienza: uno dal Belgio, un altro dai Paesi Bassi, e via via uno dal Regno Unito, dalla Spagna, dalla Svizzera, dagli USA, dal Brasile. La bella compagnia si riuniva due volte all’anno: una alla Buchmesse; l’altra in visita ai vari paesi dei singoli editori europei. Tutta la favolosa leggenda, oltre che nella mia memoria, è raccontata in “Una storia di carta. Vita di un editore”.»

– Da una fiera del libro internazionale a un’altra il passo fu breve così come l’idea originale, di vero confronto e condivisione. Ci ritorneremo.  Un altro passo importante è stato contribuire alla nascita della Hever Edizioni di sua figlia Helena. Immagino che trasferirle le sue conoscenze nel settore e l’esperienza acquisita sul campo, sia stato di notevole aiuto. Qual era ed è il suo ruolo all’interno di questa realtà?

«Per descrivere questa realtà, il discorso sarebbe lunghissimo, ma vedrò di trattenermi. Helena (il cui accento tonico, “é” va posto sulla seconda “e”), dopo il liceo cominciò il suo lavoro in P&V, occupandosi della parte commerciale relativa alla distribuzione, visitando i rivenditori in Italia. Fatti i suoi viaggi formativi in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, decise di riprendere gli studi e si laureò in quattro anni a pieni voti.  Decise poi di fondare una propria casa editrice e, quasi mutuando i “Vent’anni dopo” di Alexander Dumas, fondò nel 1991 Hever Edizioni, (vent’anni dopo la mia…), che ha attualmente raggiunto i suoi primi 32 anni di vita operativa.
Da allora io proseguo sistematicamente al suo fianco, ma mentre all’inizio non potevo che essere un indubbio aiuto, giunto a quasi un secolo di vita (il 26 giugno 2023 compio infatti 96 anni), le situazioni si stanno lentamente intercambiando, e io penso con nostalgia quanto fosse bello scrivere a mano libera la quantità di romanzi che ho realizzato finora, da solo o in compagnia di partner eventuali, e sistematicamente fatti stampare da altri editori, per scaramanzia.
L’unica ragione per cui attualmente riesco a vivere sereno è che Helena, non solo ha imparato da me il mestiere, ma è diventata decisamente superiore al mio valore del tempo che fu. Sic transit gloria mundi.»

– Ma lei ha ancora molto da insegnare e non si smette mai, a qualunque età di imparare. Guai se così non fosse!  È un dato di fatto, ineluttabile, che l’editoria stia cambiando; è in continua evoluzione, anche grazie o a causa delle nuove tecnologie. Che cosa pensa in proposito e che cosa consiglierebbe agli editori del ventunesimo secolo, se la sua attività dovesse iniziare adesso?

«Ahimè, dopo quello che ho dinanzi segnalato, non mi resterebbe che consigliare loro di andare a scuola dove insegnino per bene come operare su apparecchi che oggi magari funzionano a meraviglia e domani saranno probabilmente obsoleti. Io mi trovo in una situazione strana: il fatto sì è che, con una biro in mano e pagine da riempire, io non devo pensare a quello che devo scrivere, che anzi; perché ho l’impressione che siano le dita a comunicare il testo al foglio, e a me non resta che rileggere quanto scritto, correggendo soltanto gli eventuali refusi. Quando la racconto ai miei interlocutori, quasi tutti nella migliore delle ipotesi mi dicono: “Ma va là!”. Forse hanno ragione loro, of course.»

– Sono una voce fuori dal coro, perché anch’io quando scrivo un testo, utilizzo quasi sempre carta e penna, dimenticandomi della tastiera del computer. Però il progresso va gestito e le nuove tecnologie, conosciute e dominate.
Pare che, da un’indagine recente, l’attenzione del pubblico dei lettori stia virando di nuovo verso le librerie fisiche, a discapito dei libri elettronici che, forse complice la pandemia, avevano registrato un’impennata negli acquisti di quel periodo critico. Il libro di carta ci sarà sempre e salverà, secondo lei, la memoria del nostro passato?

«Guai se così non fosse. Ma parlando di questo argomento con il prossimo, la più parte di quelli interpellati torna a premiare la carta stampata, che Dio li benedica. Conosco però un tizio che si porta una ventina di volumi incisi in una scatoletta di legno dove, schiacciando bottoni, si può scegliere l’uno o l’altro racconto. Io correrei il rischio di non capire quello che sto leggendo: ma sono del re vecchio, come si diceva al tempo della mia lontanissima gioventù…»

– Per fortuna è ancora premiato il supporto fisico per eccellenza, la creazione dei cinesi che si è estesa al mondo occidentale e ha dato una svolta al modo di diffondere gli scritti, ancora prima dell’invenzione dei caratteri mobili. Non riesco a immaginare un Salone Internazionale del Libro di Torino con Ipad e tablet al posto del profumo e della consistenza della carta sugli stand colorati e variegati dei padiglioni di Lingotto fiere. Desidero soffermarmi su questo luogo, tanto amato dai torinesi e piemontesi, ma anche da tantissimi lettori di qualsiasi provenienza. Riprendiamo il discorso da una delle precedenti domande che ho volutamente lasciata in sospeso. Che cosa pensa di questa manifestazione, dal momento che vi partecipa ogni anno?

«E qui mi creda, non è che dovrei stendere poco più di una decina di righe, bensì redigere un libro a parte e lungo q.b., come il sale e il pepe in determinate ricette che si assaggiano al momento della loro esecuzione.  In Priuli & Verlucca, editori, Gherardo e io avevamo diviso i rispettivi compiti, secondo le nostre capabilities: lui era bravissimo a realizzare libri favolosi; io ero quello che manteneva i rapporti con il mondo. È vero quindi che, tra i tanti miei collegamenti con la parte commerciale, sono stato presente alla primissima ora della nascita del Salone del Libro, quando l’iniziativa non era ancora al Lingotto, bensì all’interno del complesso di Torino Esposizione al Valentino, proprio sulla sponda del Po.»

– E questa risposta stuzzica la mia e nostra curiosità di conoscere qualche particolare interessante sulla fondazione di quello che è oggi il noto ritrovo annuale di bibliofili, lettori accaniti e scrittori famosi o aspiranti tali ed editori che sgomitano per farsi largo tra la folla. Un’esposizione che hanno tentato di copiarci e portarci via, senza peraltro riuscirci.
La posso, senza dubbio, definire un uomo colto, e forte di una educazione contadina e un robusto insegnamento di vita. Pieno di iniziative in tutte le direzioni, come mi risulta sia stato nella sua lunga vicenda esistenziale. È stato anche lei tra i fondatori di questa splendida manifestazione?

«Non voglio certamente mi vengano attribuiti meriti che io son lungi dal possedere. L’iniziativa del Salone del Libro è dovuta a Guido Accornero e al libraio Angelo Pezzana, e io sono stato spesso in rapporto con loro. Come editori, d’altronde, nei 17 anni intercorsi dalla nostra nascita (1971) alla creazione del primo Salone (1988) noi eravamo già importanti su scala mondiale, con 305 opere realizzate, tra cui i volumi a 360° che eravamo i soli al mondo a produrre.»

– Quindi si può affermare che se non è stato uno dei padri fondatori, ha contribuito con entusiasmo e iniziativa a sostenerli con la sua competenza nel settore.
Ora, riferendomi a un’altra sua citazione, che mi piace molto, Faber est suae quisque fortunae, le domando: si sente, dall’alto dei suoi novantasei anni, di essere l’artefice del proprio destino? Oppure l’uomo percorre un cammino già in parte tracciato a cui non può completamente sottrarsi, ovvero, è nato per essere?

«Bella domanda, e io speriamo che me la cavo, citando il testo in quarta di copertina della mia autobiografia, stampata da Hever Edizioni al mio novantesimo compleanno. Leggere, per credere.  Novant’anni, quasi un secolo, vissuti sempre all’ombra di un entusiasmo che non ha tenuto conto né dell’età, né delle difficoltà, né delle vicissitudini più inopinate.
Una sequenza di studi in solitario, senza frequentare scuole e atenei, con risultati più che brillanti. Una serie differenziata di attività, sempre più o meno a contatto con la carta stampata: vent’anni stimolanti in Olivetti, in giro per l’Italia, l’Europa, il Medio Oriente: quindi mezzo secolo a fondare e gestire case editrici.
Incontri a tutti i livelli: con papi e principi, scrittori e fotografi, personaggi al vertice e varia umanità. Una vita sociale sempre attivissima, per organizzare eventi, assemblare gruppi, fondare compagnie, aziende, società in campi disparati, spesso solo per il piacere di creare nuove opportunità.
E non ho ancora deciso cosa farò da grande…»

– Sono d’accordo che non si finisca mai di imparare e che il traguardo vada sempre spostato in avanti. Viaggiare apre la mente, soprattutto se si può farlo fisicamente, ma anche la lettura è un viaggio nelle emozioni e nella conoscenza di luoghi e culture diverse ed è un grande sogno, un’emozione che si rinnova.
Che cosa si sente di consigliare ai giovani per spronarli alla lettura?

«Ardua la prospettiva: regalare loro volumi di alto contenuto conoscitivo; far sì che la scuola chieda agli allievi di riassumere un libro importante dei secoli passati, fossero i Promessi Sposi o qualche canto della Divina Commedia. Ai mei tempi, c’era l’esigenza di imparare a memoria dei lunghi testi, e chi amasse i voti alti, si industriava di ottenerli studiando quanto bastava. Mi rendo conto, tuttavia, che allora non c’erano tutte le possibilità delle quali ai tempi attuali tutti possono godere.  Se interessava una data o qualsiasi altro dettaglio dovevi sfogliare enciclopedie a perdevi giornate intere: ma i dati trovati restavano ancorati nel tuo cervello. Oggi schiacci un bottone e il dato viene offerto in tempo reale, ma lo scordi alla stessa velocità.»

– Quest’ultima riflessione è da sottolineare e indurrebbe ad approfondire il ragionamento. Ma prima di lasciarci, c’è un altro lato di Cesare Verlucca che vorrei far emergere e di cui ero allo scuro, un dettaglio come lo definisce lui: la poesia. L’uomo poeta per diletto. Gradirei che ce lo raccontasse.

«Non so neppure se valga la pena di distrarvene: sto, da non so quando, a tentar di comporre brani in prosa poetica, che gli amici insistono nel dichiarare “poesie” a tutti i costi. D’accordo che a caval donato non si dovrebbe guardare in bocca, ma io continuo a nutrire serie incertezze e lascio a lei e a chi leggerà di esprimere un giudizio. Ecco l’ipotesi iniziale che non ricordo a quanto risalga.»

Una voglia improvvisa

Improvvisa
una voglia m’ha aggredito
che, da tempo, lieve mi sorrideva:
tentar la salita all’Olimpo, dove
i lemmi si fanno suoni,
sorrisi, sentimenti, sensazioni.

Aggrovigliate ai precordi
le parole stentano a tenere il passo,
svagando in vicoli ignoti dai quali
ardua s’appalesa l’uscita
a riveder lontane stelle sconosciute.

Eppure, da sempre, credo
esistere un mondo ch’amerei
conoscere e frequentare;
da sempre sento urgere
l’empito di poetiche prose,
temendo d’affrontarle tuttavia;

e viaggio come cieco nella notte illune
sognando stelle inesistenti,
nella certezza che un traguardo
esista,
ma che mai solingo riuscirò
a varcare in questa vita,
e forse, neppure
nell’eventuale successiva.

– Azzarderei un commento, dopo aver conosciuto parte della sua esperienza di vita: chi più sa, più sa di non sapere. Di traguardi ne ha tagliati molti, ma non le sembrano ancora sufficienti. E non posso che concordare di nuovo perché, per citare Totò: “Chi si ferma è perduto”.
Purtroppo, dobbiamo avviarci alla conclusione di un’istruttiva e interessante chiacchierata, ma desidero lasciare a chi leggerà queste righe e alla nuova generazione due frasi ricche di saggezza che le appartengono perché ci ha costruito una vita e provengono dalla semplicità di sua madre.

«Mi fa un grandissimo piacere che venga ricordata mia madre, che io continuo a chiamare spesso in causa, citando i suoi detti nel largo patois pratiglionese, che aveva sentori di casa e di affetto e nascevano in pratica con un sorriso dall’alto della sua cultura inesistente: contadina dall’intelligenza luminosa, la cui istruzione scolastica s’era arrestata alla terza elementare che era in pratica quello che ai suoi tempi, a cavallo tra il XIX e XX secolo, passava il mondo culturale di allora. Gliene cito uno in dialetto e lo traduco in italiano. “Cit, ‘ntsvegna ch’et vòle rivar, ‘nta semper ch’et fase ‘l prim pass”, che sta per: “Bimbo, dovunque tu voglia arrivare, devi sempre fare il primo passo”.»

– Dal momento che siamo in forma, possiamo fare un’esperienza a due: lei mi recita un secondo brano in pratiglionese, non meno profondo di quello ora citato, e io provo a tradurlo in italiano.

«Volentieri, e cercherò di recitarlo con intenzioni comprensive: “Cit, s’et piente ne smeins et s’è nin sa nass na pienta; ma se t’el piente nin, t’è sigur ch’a nass nin”

– Ho l’impressione di star abituandomi al dialetto, aiutata dal piemontese delle mie origini, perché ritengo di poterlo tradurre così: “Bimbo, se pianti un seme, non sai se nascerà una pianta; ma se non lo pianti, sei sicuro che non nascerà niente”. E in effetti, bisogna provarci: lasciamoci con questo sprone.

Ringrazio Cesare Verlucca per la disponibilità e lo invito a ritornare a trovarci per discutere, ragionare e, perché no, raccontarci qualcosa del suo mondo che è anche quello di MetaAlice.

Cesare e papa Woytila

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